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Vito Volterra, storia di un matematico politico

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Il fondatore e primo presidente del CNR è stato un matematico che ha dato contributi originali e profondi a molte teorie e ha seguito una prospettiva quanto mai interessante nel delineare i rapporti tra quella che oggi chiameremmo ricerca di base e le sue applicazioni. È stato anche un uomo politico: la sua attività, perché lo Stato italiano inserisse lo sviluppo scientifico tra le sue priorità, e la coerenza mostrata poi negli anni bui del fascismo costituiscono una lezione che parla direttamente ai problemi che il Paese deve oggi affrontare. Sono questi gli aspetti che nelle prossime pagine vorrei brevemente illustrare.

Volterra matematico

Ha poco più di 20 anni ed è ancora studente alla Normale di Pisa quando, nel 1881, vede pubblicati due suoi articoli sul Giornale di Matematiche di Battaglini. Siamo nel campo della Matematica “pura”: gli articoli del giovane Volterra seguono l’indirizzo di Ulisse Dini, suo maestro alla Normale, che in Italia era uno dei principali esponenti di quel programma rigorista nel quale si trovano particolarmente impegnati i matematici tedeschi e che persegue l’obiettivo di riscrivere con estremo rigore le nozioni base dell’Analisi (limiti, derivate, integrali ecc.).
Al centro degli articoli del 1881 c’è la teoria dell’integrazione, la definizione di integrale definito data dal matematico tedesco Bernhard Riemann e il tentativo di caratterizzare con la maggior precisione possibile la classe delle funzioni integrabili. Con i contro-esempi contenuti in queste sue Note giovanili, Volterra acquisisce quei meriti per cui è ancor oggi citato nei libri che ricostruiscono la storia della teoria dell’integrazione. Con il primo, contribuisce a orientare l’attenzione degli studiosi sul concetto di insieme di misura nulla, distinto da quello topologico di insieme in alcun luogo denso e che risulterà strategico nel caratterizzare i punti di discontinuità di una funzione integrabile. Con il secondo esempio, dimostra che in generale derivazione e integrazione non sono l’una l’operazione modo i cosiddetti “teoremi fondamentali” del calcolo integrale.
Gli articoli per cui Volterra è considerato il fondatore dell’Analisi funzionale sono di poco successivi. Siamo nel 1887 e in alcune Memorie lincee (“Sopra le funzioni che dipendono da altre funzioni” e “Sopra le funzioni dipendenti da linee”) Volterra generalizza il concetto di funzione con quelli che oggi sono comunemente indicati come funzionali. Se per funzione reale di una variabile reale intendiamo una corrispondenza che a un numero reale associa un altro numero reale, con la parola funzionale designamo una corrispondenza che a un elemento di un insieme qualsiasi associa un numero reale. Nel linguaggio di Volterra, inizialmente un po’ meno generale, è una corrispondenza che a un elemento dell’insieme delle funzioni continue, o delle curve che le rappresentano geometricamente, associa un numero reale. Parla di funzione che dipende da un’altra funzione – concetto che deve essere tenuto ben distinto da quello di funzione composta – o di funzione che dipende da una linea. La generalizzazione interviene sulla variabile indipendente della corrispondenza, non su quella dipendente. Tutti i discorsi che riguardano il comportamento della variabile indipendente (per esempio, il suo avvicinarsi a un valore limite) andranno riformulati; quelli che coinvolgono la variabile dipendente possono, invece, essere tranquillamente “copiati” perché nulla è cambiato da questo punto di vista nel passaggio dalle funzioni ai funzionali.

Volterra è spinto a inventare la teoria dei funzionali dalla constatazione che espressioni che dipendono da altre funzioni si presentano in molti sviluppi analitici. Per esempio, nella soluzione delle equazioni differenziali alle derivate parziali (dove un integrale viene a dipendere da una o più funzioni arbitrarie) o in Analisi complessa. Queste sono le motivazioni interne. I riferimenti esterni sono alle “molte esperienze di fisica e di meccanica” dove ugualmente, in modo spontaneo, si intravede il concetto di funzionale: “per tutti i valori che la temperatura ha nel contorno; lo spostamento infinitesimo di un punto di una superficie flessibile inestendibile, dipende da tutte le componenti degli spostamenti dei punti del contorno, parallelamente a una certa direzione”. Anche la versione geometrica dei funzionali, considerati all’opera sull’insieme delle curve chiuse di uno spazio tridimensionale, è familiare ai fisici dato che “si presenta spontaneamente quando si pensa a certi fenomeni elettrici. Si consideri una corrente elettrica che percorra un circuito lineare chiuso con intensità uguale e I e che si trovi in un campo magnetico. La energia potenziale della corrente dipenderà soltanto dalla forma, dalla posizione del circuito e del senso in cui la corrente lo percorre; quindi a ogni linea chiusa che si traccerà nel campo magnetico percorso in una certa direzione, corrisponderà a un valore della energia potenziale”. Sia il periodo pisano, sia quello torinese – Volterra rimarrà nel capoluogo piemontese dal 1893 al 1900 per poi trasferirsi definitivamente a Roma – registrano importanti ricerche in ambito fisico-matematico.

A Torino, nel 1896-7, Volterra pubblica anche i primi lavori sulle equazioni integrali. Si tratta di risolvere un’equazione funzionale in cui la funzione incognita compare sotto il segno di integrale. A questo tipo di equazioni conducono direttamente alcuni problemi di Fisica matematica ma anche altre questioni formalizzate magari tramite equazioni differenziali che poi è più comodo convertire in equazioni integrali. Già ai tempi di Volterra questo strumento analitico aveva una sua storia. Era però sempre stato studiato in relazione a uno specifico problema e alla singola equazione integrale a cui questo conduceva. Le equazioni che Volterra prende in esame sono ancor oggi chiamate con il suo nome (equazioni di Volterra di prima o di seconda specie) per distinguerle da quelle cosiddette di Fredholm in cui entrambi i limiti di integrazione sono costanti. A Roma, via via gli impegni pubblici rallentano inevitabilmente il ritmo della ricerca ma Volterra, pur pressato dagli innumerevoli incarichi pubblici e accademici, riuscirà ancora negli anni Trenta a lasciare un’impronta profonda nello studio della dinamica delle popolazioni. Proprio mentre l’inesorabile passare degli anni lascia pensare che la fase più creativa sia ormai alle spalle, elabora una nuova teoria che da sola sarebbe sufficiente ad assicurargli un solido posto nella storia della scienza del Novecento, studiando i meccanismi di interazione tra specie biologiche conviventi nel medesimo ecosistema.
Il problema specifico alla base di tale studio è la comprensione di alcune statistiche, inerenti i primi vent’anni del secolo scorso, realizzate per i porti del Nord Adriatico e il loro pescato. Il modello di Volterra (il cosiddetto modello preda-predatore), oltre a giustificare la “stranezza” riscontrata nelle statistiche che registravano un singolare incremento percentuale dei predatori nel pescato negli anni della guerra, prova che le ragioni endogene - la lotta per la sopravvivenza – sono sufficienti per giustificare le fluttuazioni del numero di prede e di predatori e le oscillazioni periodiche che si colgono nella dinamica di queste popolazioni.

Puro e applicato

Alla Normale, Volterra riceve una doppia formazione. Nel primo biennio di studi, come abbiamo già avuto modo di ricordare, è soprattutto attratto dalla personalità e dall’impostazione di Ulisse Dini che rappresenta una ricerca di base tesa a rigorizzare i concetti fondamentali dell’Analisi matematica. Poi, con il secondo biennio, sposta progressivamente la sua attenzione verso l’area fisico-matematica e gli interessi di ricerca di Enrico Betti, complici anche le difficoltà di incontrare con una certa regolarità Dini che si divide tra Pisa e Roma per i gli impegni politici. Un altro matematico, Luigi Bianchi, compagno di studi di Volterra, anche lui allievo di Dini a cui poi succederà nella direzione della Normale, così caratterizza i due diversi insegnamenti: “per poco insomma che se ne fosse degni, diventava un vero godimento intellettuale l’assistere alle lezioni di questi due nostri grandi maestri, pur così diversi nella forma dell’esposizione, come anche dell’indole stessa della loro mente matematica. Adottando le vedute esposte da Henry Poincaré (…) si potrebbe esprimere tale diversità, ascrivendo, senza esitazione, il Betti alla schiera dei matematici ‘intuitivi’, il Dini piuttosto a quella dei ‘logici’; l’uno e l’altro però collocando, a buon diritto, tra i matematici ‘inventori’”. È un imprinting, quello che abbiamo chiamato della doppia formazione con Dini e Betti, che lo accompagnerà per tutto lo sviluppo della carriera scientifica. Volterra è analista e fisico matematico. Si laurea in Fisica con Betti nel 1882 ma sarà ricordato soprattutto per quegli apporti fondamentali alla storia dell’Analisi sui quali ci siamo brevemente soffermati nel precedente paragrafo. È matematico originale e creativo, pronto a utilizzare e a inventare una formalizzazione quanto mai raffinata, ma nel contempo, viene sempre guidato nelle sue astrazioni dai problemi che una tale formalizzazione deve risolvere e per i quali è stata elaborata.

La “curiosità” deve caratterizzare l’atteggiamento degli scienziati

Quando il matematico francese Maurice Fréchet gli rimprovererà di non essere stato sufficientemente generale e astratto nella definizione di differenziale di un funzionale, non avrà alcuna esitazione a ribadire che non aveva tempo da perdere per questioni che giudicava poco rilevanti, quale una generalizzazione fine e a se stessa, teso come à cette époque 1887 un tel nombre de problèmes (équations intégrales, aux dérivées fonctionnelles, etc.) que je ne pouvais pas m’arrêter à des questions sécondaire à mon point de vue qui était celui des applications des concepts génèraux que j’avais posé” (lettera a Maurice Fréchet del 17 novembre 1913). Non è un caso se tra i matematici più apprezzati da Volterra, a cui si sente più vicino, figura Henri Poincaré: anche la sua è una Matematica nel contempo pura e applicata, non addomesticata da classificazioni rigide e precostituite; una Matematica profonda e formalmente impegnativa che mai comunque si riduce a semplice sviluppo logico di regole formali e per la quale intuizione ed esperienza continuano a svolgere un ruolo essenziale. Quelle che potremmo sbrigativamente definire applicazioni sono per Volterra anzitutto applicazioni dello strumento analitico ad altre teorie matematicheo alla Fisica.

Quando però nel 1900 è invitato dall’Università di Roma a tenere la prolusione al successivo anno accademico, approfitta dell’occasione che gli suggerisce la scelta di un tema multidisciplinare per approfondire la sua “curiosità” nei confronti delle nuove applicazioni, quelle che all’inizio del secolo riguardavano la Biologia e l’Economia.
La sua prolusione, letta il 4 novembre 1901, inizia proprio con il tema della “curiosità” che caratterizza l’atteggiamento degli studiosi. Nel matematico, questa curiosità è ancora maggiore perché si trova in possesso di strumenti interpretativi particolarmente potenti. Il percorso con cui interagisce con la realtà e i problemi non ancora formalizzati si realizza attraverso la costruzione di quei modelli matematici che trovano qui una delle loro prime descrizioni: “lo studiare le leggi con cui variano gli enti suscettibili di misura, l’idealizzarli, spogliandoli di certe proprietà o attribuendone loro alcune in modo assoluto, e lo stabilire una o più ipotesi elementari che regolino il loro variare simultaneo e complesso; ciò segna il momento in cui veramente si gettano le basi sulle quali potrà costruirsi l’intero edificio analitico”. Un modello è una rappresentazione semplificata della realtà, per potervi introdurre il formalismo matematico e avvalersi della sua potenza. La semplificazione operata, con la sottolineatura di determinare proprietà e la sordina applicata invece ad altri caratteri, dipende dalla lettura soggettiva del fenomeno in questione e dalle indicazioni che provengono dal formalismo prescelto: “plasmare dunque concetti in modo da poter introdurre la misura; misurare quindi; dedurre poi delle leggi; risalire da esse a ipotesi; dedurre da queste, mercè l’analisi, una scienza di enti ideali sì, ma rigorosamente logica; confrontare poscia colla realtà; rigettare o trasformare, man mano che nascono contraddizioni fra i risultati del calcolo e il mondo reale, le ipotesi fondamentali che han già servito; e giungere così a divinare fatti e analogie nuove, o dallo stato presente arrivare ad argomentare qual fu il passato e che cosa sarà l’avvenire; ecco, nei più brevi termini possibili, riassunto il nascere e l’evolversi di una scienza avente carattere matematico”. La costruzione del modello e la sua analisi tendono a “mostrare soltanto ciò che è utile vedere (…) e a nascondere tutto il superfluo che confonderebbe lo sguardo” venendo a volte a stabilire una precisa identità tra fenomeni apparentemente diversi. E non è solo questione di economia di pensiero. L’indagine matematica può arrivare anche a conclusioni inaspettate e “nessuno può quindi dire al geometra a quali ampi orizzonti condurrà lo stretto e spinoso sentiero che il calcolo gli fa seguire”.

Volterra, uomo politico

Volterra è nominato senatore da Giovanni Giolitti nel 1905, come riconoscimento di una carriera scientifica ancora breve – il matematico aveva solo 45 anni – ma già costellata da successi e riconoscimenti internazionali e come segno di specifico apprezzamento per quanto fatto nella riorganizzazione degli Istituti di istruzione tecnica superiore (il Politecnico) di Torino. Come senatore, Volterra non mancherà di esprimere il suo parere e di far conoscere le sue posizioni sulle questioni più delicate che coinvolgeranno in particolare il mondo dell’istruzione e della formazione. Indubbiamente, però, l’atto più politico da lui compiuto rimane la fondazione della SIPS (Società Italiana per il Progresso delle Scienze). È l’episodio che meglio descrive la sua progettualità politica e dai cui sviluppi, pur con alcune significative “discontinuità”, vedrà l’origine il CNR. Volterra presenta ufficialmente il suo progetto di istituzione di quella che sarà appunto la Società Italiana per il Progresso delle Scienze al congresso dei naturalisti convocato a Milano il 15 settembre 1906, anche per celebrare il 50° anniversario di fondazione della Società Italiana di Scienze Naturali. Nel suo intervento, ricorda puntualmente le precedenti riunioni degli scienziati italiani. Ricorda anche le analoghe associazioni attive negli altri Paesi, soffermandosi in particolare su quella inglese di cui era stato ospite – a Cambridge – nel 1904 e che aveva potuto osservare con una certa cura. La costituzione della nuova Società verrà incontro alla richiesta di superamento dell’eccessiva specializzazione solo se formulata su basi nuove, che la caratterizzino nettamente rispetto alle storiche accademie. Il pericolo che preoccupa Volterra non è tanto quello di dar luogo a un consesso nel quale le questioni sindacali e professionali finiranno per imporsi su quelle scientifiche – esistevano ormai altre forme associative in risposta a questa domanda sociale – quanto di ripetere esperienze superate che potevano contare solo su una base ristretta esibendo “un carattere per dire così scientificamente aristocratico”. Si devono invece cercare nuovi canali di comunicazione e di compartecipazione tra i diversi gruppi di ricerca e tra questi e il background sociale che costituisce il loro naturale bacino di consenso e il tramite per la diffusione delle loro acquisizioni: “deve cercarsi che la nuova Associazione abbia una larga base, che possa stendere le sue radici liberamente in tutto il paese e abbracciare tutti coloro che volenterosi amano la scienza; sia quelli che hanno direttamente portato a essa un contributo, sia quelli che desiderano solamente impadronirsi di quanto altri hanno scoperto. In una parola la nuova Associazione deve essere scientificamente democratica. Si corre, è vero, qualche rischio seguendo questo concetto, ma val la pena di correrlo per fare cosa giovane, vitale e moderna, purché il coraggio e la buona volontà non manchino”. La nuova Società, oltre che luogo di incontro di singoli studiosi, intende costituire una rete tra tutte le realtà già operanti nel campo della cultura e della diffusione scientifica. Da loro, Volterra si aspetta un contributo importante. Garantisce, naturalmente, il rispetto della loro individualità e una completa autonomia.

Il progresso scientifico è essenziale per quello civile

A Milano, la proposta di Volterra viene accolta con favore. Convergono sul suo progetto anche orientamenti simili formulati da altri studiosi e si istituisce una commissione incaricata di preparare il varo della nuova associazione. Il congresso costitutivo di Parma del settembre 1907 confermerà la prospettiva delineata a Milano. Semmai, nelle circolari diffuse tra il congresso dei naturalisti del 1906 e quello di Parma, comincia a emergere un’indicazione politica più esplicita. La SIPS, oltre che occasione di convergenza democratica per bilanciare l’eccessiva specializzazione e diffondere tra gli stessi ricercatori una cultura scientifica meno settoriale, avrà anche il compito di rappresentare il mondo della scienza italiana di fronte all’opinione pubblica e al potere politico.
A Parma, nell’intervento di apertura del Congresso, Volterra dirà “in molti ancora è il desiderio di una solenne manifestazione nazionale delle scienze di fronte al paese, il quale forse non apprezza ancora nel suo giusto valore l’importanza della ricerca scientifica né quale forza rappresenti per la prosperità civile ed economica di una nazione”. La SIPS nasce dunque nelle intenzioni di Volterra con due obiettivi “politici”. Da una parte, c’è quello “interno” costituito dal mondo scientifico e da studiosi che devono meglio comprendere il loro ruolo culturale e di classe dirigente del Paese. C’è un evidente e inarrestabile necessità di specializzazione ma c’è anche la simultanea necessità del suo superamento in quanto “le diverse discipline si sono talmente compenetrate, che non si comprende al dì d’oggi come si possa avanzare nell’una senza conoscerne, e profondamente conoscerne, molte altre e non quelle sole che si ritenevano or son pochi anni affini, ma anche delle nuove, rivelatesi ora strettamente connesse”. Il sacrosanto superamento di un’eccessiva specializzazione non si realizza con il ritorno al dilettantismo, in cui tutti disquisiscono di tutto, bensì istituendo dei canali di comunicazione tra le diverse specializzazioni.
La pubblicità del confronto tra gli scienziati avrà anche una inevitabile ricaduta positiva in termini divulgativi: “tutto ciò che il pubblico non può apprendere né da libri né da discorsi, si paleserà quando esso assista e si mescoli alle discussioni degli uomini di scienza, giacché son le dispute spontanee e vivaci, che mostrano sotto la luce più naturale e più vera il germogliare e l’esplicarsi di quei pensieri che di solito non troppo sapiente artificio divulga”.
All’obiettivo “interno” – una maggiore consapevolezza da parte delle comunità scientifiche delle prospettive entro cui operano e della rilevanza culturale del loro lavoro – si accompagna quello più politico. Il progresso scientifico è essenziale per quello civile. Il potere politico non può trascurare la presenza degli uomini di scienza, quale segmento fondamentale della classe dirigente del Paese: “non questo solo però il paese richiede alla istituzione che sorge; non la sola soddisfazione della curiosità di sapere, ma proficuo incoraggiamento e sprone a ogni fecondo studio e a ogni nuova e vitale ricerca. Gli uomini dedicati alle industrie, ai commerci, alle pratiche professioni, innumerevoli richieste hanno ogni dì da rivolgere alla scienza, la quale è di continuo premuta da un’onda crescente di persone che sperano da lei la soluzione dei nuovi problemi che lor si affacciano complessi e incalzanti e la invocano vittoriosa delle difficoltà ognora risorgenti”. Il CNR nascerà dopo la guerra con l’intento di sviluppare i discorsi avviati con la SIPS, la sua costituzione e le sue prime realizzazioni. I suoi obiettivi si porranno in linea di continuità, ma anche di sviluppo, con quelli che erano stati alla base della fondazione della Società. La SIPS era stata costituita per creare un luogo di incontro e di dibattito tra gli scienziati di diverse competenze e fare pressione sulla politica perché riconoscesse l’importanza sociale ed economica del movimento scientifico. La guerra accelererà i tempi di questa consapevolezza. In agenda non ci sarà più la creazione di un momento “assembleare” di discussione quanto l’opportunità di raccogliere i frutti della mobilitazione degli anni precedenti ed entrare direttamente in qualche “stanza dei bottoni”, utilizzando anche la forza di persuasione che proviene dal vettore internazionale.

Il giuramento

La coerenza e l’intransigenza etica esibita nei confronti del fascismo sono l’ultimo aspetto della personalità di Volterra che intendo qui illustrare. Liberale e moderato, Volterra non nutre nessuna simpatia per il movimento mussoliniano. In una prima fase, il suo atteggiamento è di opposizione al nuovo gabinetto, ma comunque di accettazione dello stato di fatto. Fedele alla monarchia, Volterra decide di attenersi nelle sue responsabilità istituzionali a una linea generale di collaborazione con l’esecutivo voluto dal re, a prescindere dalle proprie opinioni personali. La prima occasione di scontro viene alla luce con il pacchetto di riforme su scuola e Università presentato da Giovanni Gentile. Poi, nel ’24, la situazione precipita con la crisi del regime costituzionale che aveva finora accompagnato lo sviluppo dell’Italia dopo l’Unità, le elezioni di aprile che si svolgono in un clima di violenta intimidazione nei confronti delle opposizioni e il sequestro (il 10 giugno) del segretario del Partito socialista, Giacomo Matteotti.

Volterra guarda con ormai crescente preoccupazione alla situazione politica. Gli è chiaro che il fascismo rappresenta la fine di quello stato liberale in cui aveva sempre creduto. L’anno successivo firma il “Manifesto Croce” che rappresenta la risposta degli intellettuali antifascisti al “Manifesto Gentile” e al programma di fascistizzazione della cultura e della scuola. È così esplicitamente annoverato tra gli oppositori del regime con una posizione che lo porta quasi inevitabilmente a non essere più rinnovato nelle cariche di presidente dell’Accademia dei Lincei e del CNR, dopo il primo triennio di loro direzione. Nel ’28 risulterà intestatario di un fascicolo di polizia, come persona politicamente sospetta. Come senatore, è però protetto dall’immunità statutaria e cerca sollievo a questa atmosfera stagnante e persecutoria con frequenti viaggi all’estero. Il suo passaporto è però un affare di Stato. Il 19 dicembre 1928, la questura di Roma scrive alla Direzione Generale di Pubblica Sicurezza: “Il Senatore del Regno Vito Volterra ha presentato istanza per la concessione del passaporto per l’estero. Medesimo, come è noto, è un oppositore liberale e, per ultimo, ha votato contro la legge sul Gran Consiglio fascista. Quest’ufficio, tuttavia, non avrebbe motivi specifici per negargli la chiesta concessione. Ne informo comunque codesto on.le Ministero per le determinazioni che in proposito crederà adottare”. Il fonogramma è istoriato dagli appunti dei funzionari incaricati di procedere alle ricerche: “È tra i firmatari del manifesto Croce; è compreso tra i senatori oppositori”. Altre annotazioni indicano che il suo nome compare in fascicoli di polizia aperti nel 1926 e nel 1927 nelle categorie C2 e A1. Del “caso Volterra” ci si occupa ai massimi livelli: il “sì” alla concessione del passaporto è siglato dalla caratteristica “M” che contrassegna le pratiche decise direttamente dal duce. Ed è a questo livello che saranno trattate le faccende che riguardano Volterra, oggetto di specifici colloqui tra Mussolini e il capo della polizia Arturo Bocchini. Volterra, negli anni Trenta, continuerà a essere sorvegliato dalla polizia politica e i suoi spostamenti segnalati dai fonogrammi della questura.

Quando torna a casa dai suoi viaggi il funzionario regolarmente comunica: “Informo che senatore Volterra Vito fu Abramo ha fatto qui ritorno. Riattivata vigilanza”. La presa di posizione più ferma, con pesanti conseguenze, si ha comunque nel ’31 con l’episodio del giuramento di fedeltà al regime alla cui sottoscrizione sono obbligati tutti i docenti. Si tratta, nelle intenzioni del fascismo, di un atto di sanatoria (che cancella tutti gli eventuali episodi precedenti di insubordinazione o di mancato allineamento alle direttive del regime) e nel contempo di duro attacco alle opposizioni intellettuali : chi non avesse sottoscritto il nuovo giuramento sarebbe stato subito allontanato dal suo lavoro e da tutti gli incarichi di responsabilità. Il 3 novembre 1931 tutti i professori dell’Università di Roma – tra cui Volterra – ricevono una circolare del rettore De Francisci, che li invita a giurare secondo la formula: “Giuro di essere fedele al Re, ai suoi Reali successori e al Regime Fascista, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l’ufficio di insegnante e adempiere a tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria e al Regime Fascista. Giuro che non appartengo né apparterrò ad associazioni o partiti, la cui attività non si concilii coi doveri del mio ufficio”. Alla successiva lettera che informa i professori della data del giuramento, Volterra risponde il giorno stesso: “ill.mo signor rettore sono note le mie idee politiche per quanto esse risultino esclusivamente dalla mia condotta nell’ambito parlamentare, la quale non è tuttavia sindacabile in forza del’art. 51 dello Statuto fondamentale del Regno. La S.V. comprenderà quindi come io non possa in coscienza aderire all’invito da lei rivoltomi con lettera 18 corrente relativa al giuramento dei professori”. Il tono è asciutto. Non c’è nessuna particolare protesta e nessun proclama, se non quello di una dignità calpestata. Volterra sa che, nell’immediato, va incontro a una sconfitta e all’ostracismo sociale. Ugualmente, non ce la fa a sottoscrivere il giuramento. A distanza di qualche decennio il suo comportamento, così poco “realistico” e quasi incurante delle conseguenze, è però tra i pochi che riesce a trasmetterci delle vere emozioni e a indicarci lo stretto corridoio lungo il quale gli intellettuali dovrebbero procedere nei confronti del potere politico: suo coinvolgimento nella progettazione e gestione della “cosa pubblica” ma anche autonomia e fermo rifiuto di sudditanze e opportunismi.

Tratto da Scienza & società - Novant'anni di CNR 1923-2013

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