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Clima: ottimi gli impegni presi ma non basta

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Gli impegni attuali (stabiliti o annunciati) per ridurre le emissioni di gas serra non sono sufficienti a contenere il riscaldamento globale entro la soglia "critica" dei 2°C.
Su questo dato sono d'accordo tutti i governi del mondo che a Lima hanno approvato il documento che guiderà i negoziati verso un accordo globale sul clima atteso per la fine del 2015 a Parigi. Durante l'ultima conferenza in Perù sono stati fatti passi avanti, secondo molti, ma è risultato altrettanto chiaro che i nodi da sciogliere prima di arrivare a un accordo condiviso ed efficace sono ancora tanti e riguardano soprattutto la distribuzione degli impegni e dei costi (nazionali) per sostenere quella transizione necessaria a limitare l'aumento (globale) della temperatura. In pratica, tutti, o quasi tutti, sono d'accordo sul "cosa" fare (ridurre le emissioni di CO2 e altri gas serra), il problema è stabilire "chi" deve ridurre "quanto", "entro quando" e "come" (con quali tecnologie? E con quali soldi?). Uno studio internazionale pubblicato recentemente su Nature Climate Change ha prodotto nuovi elementi per rispondere a queste domande, come spiega il coordinatore del progetto Massimo Tavoni (CMCC, Fondazione Eni Enrico Mattei e Politecnico di Milano).

Quali sono i risultati più importanti di questa ricerca?
La cosa più importante è stato cercare di caratterizzare a livello delle principali economie mondiali la transizione dalle emissioni attuali verso i diversi scenari futuri (che comprendono diversi livelli di ambizione dell'accordo internazionale per il clima). L'ultimo rapporto IPCC aveva sottolineato l'urgenza di una transizione rapida verso un mondo a basse emissioni ma l'aveva fatto a livello mondiale, senza dare dettagli a livello regionale. Però le politiche si fanno a livello di paese, non a livello mondiale. Quindi questa declinazione è importante. Il fatto che non fosse stato fatto è dovuto ad una ragione politica, nel senso che il documento finale dell'IPCC viene approvato in plenaria da tutte le nazioni e per questo alla fine non era riuscita ad emergere tutta la parte scientifica sottostante che riguardava i paesi emettitori più importanti. Questo è l'obiettivo di questo studio: concentrarsi sulle regioni ed in particolare su quelle che emettono di più. Quindi parliamo di Cina, India, Stati Uniti, Europa, ecc.

Quanto sono distanti le politiche attuali dai livelli necessari a garantire l'obiettivo dei 2°C?
Come si vede da questa Figura 1, se vogliamo rimanere entro i 2°C, in modo fattibile e con costi contenuti, le emissioni dovrebbero raggiungere un picco molto rapidamente.

Figura 1 / (Fig. 6 dal Policy Brief Limiting Global Warming to 2°C. In rosso il picco delle emissioni corrispondenete alle attuali politiche climatiche)

Nei paesi industrializzati dovrebbero essere già "piccate" (cosa più o meno realistica, per esempio in Europa e negli Stati Uniti sono già scese negli ultimi anni). Negli altri paesi e in tutte le grandi economie le emissioni dovrebbero raggiungere il picco tra il 2020 e, al massimo, il 2030. Invece gli impegni che vediamo adesso variano. La Cina ha un picco più o meno al 2030, annunciato di recente, quindi è proprio al limite. Altri Paesi, come il Medio Oriente o l'India, hanno picchi che vanno verso la metà del secolo. E questo non è in linea con l'obiettivo dei due gradi. Ritardare ulteriormente e provare a rimenere entro quella soglia può essere comunque fattibile ma i costi, anche politici, sarebbero sicuramente molto più alti.

In pratica rispettare l'obiettivo dei 2°C è impossibile senza un contributo sostanziale delle economie emergenti?
Esattamente. Questo non vuol dire che le economie emergenti debbano pagare tutti gli sforzi da sole. Questo è un punto importante. É chiaro che per le dimensioni demografiche ed economiche dei paesi emergenti la maggior parte della riduzione delle emissioni, in livelli assoluti, dovrà avvenire lì. Ma anche i paesi industrializzati devono fare molto di più. Parliamo di cifre che per la metà di questo secolo richiedono una riduzione delle emissioni notevole, tra l'80 e il 90% rispetto ai livelli del 2005. Questo è il modo per arrivare ai due gradi: quasi un azzeramento delle emissioni nei Paesi più industrializzati, un po' di tempo in più per i Paesi in via di sviluppo e strumenti di compensazione tra le due categorie.

Lo sviluppo di tecnologie low carbon è considerato un punto fondamentale per stare nel limite dei 2°C (come sottolineato anche nell'ultimo rapporto IPCC). Però alcune tecnologie sono ancora in fase sperimentale, come per esempio la cattura e stoccaggio del carbonio (CCS), o continuano ad avere delle "controindicazioni" importanti, come per esempio il nucleare, oppure per altre è difficile prevedere gli effetti di un'applicazione su vasta scala, ammesso che sia fattibile, come nel caso della CCS combinata con biomassa (BECCS). Come avete valutato queste incertezze? Nel caso in cui queste opzioni non fossero praticabili, quali soluzioni ci sono?
Le opzioni sono tante: la transizione da combustibili fossili ad alta intensità di carbonio, come il carbone, ad altri con intensità più bassa, come il gas, la transizione verso le rinnovabili, o verso fonti a zero emissioni come il nucleare o biomassa. L'elettrificazione del settore trasporti o la sequestrazione della CO2. Il punto è che per fare due gradi c'è bisogno di tutte e in modo significativo, anche se i livelli variano da regione a regione.
Abbiamo valutato cosa potrebbe succedere se una o alcune di queste soluzioni non si rivelassero all'altezza, o se l'accettabilità sociale di queste tecnologie non fosse sufficiente per una applicazione su larga scala, e raggiungere l'obiettivo dei due gradi diventerebbe più difficile. Sicuramente la cattura e stoccaggio della CO2 ha un ruolo importante, per la grande quantità di combustibili fossili che ci sono e per la capacità di poterla combinare con la biomassa. L'opportunità di usare biomassa su larga scala senza avere ripercussioni negative sui mercati agricoli e sui prezzi delle derrate alimentari è una delle variabili chiave.
Senza usare biomassa e CCS raggiungere i due gradi diventerebbe estremamente difficile. Senza nucleare invece si potrebbe fare, i costi sarebbero più alti, ma da quello che vediamo potrebbe essere comunque fattibile. Anche con un potenziale di rinnovabili ridotto le cose diventerebbero più difficili ma forse fattibili.

E usando solo rinnovabili?
Non abbiamo fatto uno scenario solo rinnovabili. Altri l'hanno fatto e hanno dimostrato che teoricamente è fattibile, ma in pratica con la tecnologia attuale è difficile immaginare in futuro un utilizzo di rinnovabili così ampio, per questioni legate alla natura stessa delle rinnovabili, che sono intermittenti. C'è bisogno di un miglioramento significativo di quelle tecnologie che devono accompagnare lo sviluppo delle rinnovabili, per esempio nello stoccaggio dell'energia elettrica prodotta, che al momento sembra essere lontano. Quindi uno scenario solo rinnovabili e coerente con i due gradi sarebbe decisamente ambizioso.

Quanto costa rispettare i 2°C? E chi dovrebbe pagare?
I costi sono stati chiariti nel rapporto IPCC, si parla di qualche punto percentuale di riduzione del GDP globale, quindi non sono insignificanti ma neanche astronomici. Il vero problema non sono i costi globali ma la loro distribuzione, cioè chi paga di più. Questo è fondamentale anche dal punto di vista negoziale, quando i paesi si misurano uno con l'altro. Quello che emerge da questo studio è che se volessimo rispettare i due gradi in modo efficiente, che per gli economisti significa mettendo una tassa sulla CO2 che sia uguale ovunque nel mondo, questo potrebbe avere degli effetti cosidetti regressivi.

Figura 2 / (Fig. 10 dal Policy Brief Limiting Global Warming to 2°C)

 

Alcuni paesi, in particolare quelli industrializzati, avrebbero costi minori, i paesi in via di sviluppo avrebbero costi maggiori e i paesi esportatori di petrolio avrebbero costi ancora più alti. Questi ultimi per ovvie ragioni, perchè non esporterebbero più, i paesi in via di sviluppo invece perchè hanno un'intensità di CO2 nelle loro economie più alta. Questo effetto di regressività provoca uno sbilanciamento (negativo) verso quelle nazioni che finora hanno contribuito meno al problema. Lo sbilanciamento può essere risolto, dipende da quali tipi di trasferimenti e di compensazioni verranno messi in pratica. Stiamo parlando di trasferimenti tra i 100 e i 150 miliardi di dollari all'anno dai paesi industrializzati verso quelli in via di sviluppo. Una cifra non lontana da quella che si discute per il Green Climate Fund. Per ora, uno dei principali motivi di discussione a Lima è stato il disaccordo su queste cifre. Finora sono stati raccolti circa 10 miliardi di dollari, quindi il divario è ancora ampio e la questione dei trasferimenti rimane tra i temi più accesi.

Da come si sono conclusi gli ultimi negoziati sul clima e guardando ai possibili sviluppi per l'anno prossimo a Parigi, come vedi il futuro della politica climatica? Frustrante, dal un punto di vista di uno scienziato, o promettente?
Devo dire comunque frustrante dal punto di vista dello scienziato del clima, ma se lo vediamo dal punto di vista dello scienziato politico è anche naturale. Questo è un processo negoziale estremamente complicato, con moltissimi attori, su base volontaria, dove gli incentivi di tutti devono essere conciliati. È una negoziazione che guarda al lungo periodo, il che si scontra con l'ottica di breve periodo delle democrazie, che ragionano in cicli elettorali più che sui cicli decennali del problema che stiamo affrontando. Esperienze di altri accordi internazionali hanno richiesto tempi simili, se non più lunghi. La storia delle negoziazioni internazionali è una storia estremamente complicata, e questa è la più complicata di tutte le negoziazioni internazionali che abbiano mai fatto.
Guardando il lato positivo, l'accordo che si sta discutendo adesso è comunque un passo avanti importante perchè sta diventando qualcosa in grado di coinvolgere i principali paesi emettitori di gas serra. Anche guardando agli impegni attuali in termini di riduzione delle temperature, i numeri non sono zero.
Se non facessimo niente, avremo uno scenario da qui a fine secolo che ci porta a 4-5°C di riscaldamento. Se tutte le politiche correnti vengono implementate e portate avanti nel modo migliore possibile possiamo scendere a 3-3.5°C. Il che ovviamente è lontano dai due gradi ma diciamo che è a metà strada. Per coprire l'altra metà sono necessari sforzi aggiuntivi ed è difficiale pensare che il problema possa essere risolto rapidamente, ma ci sono dei segnali promettenti. Forse non ci porteranno a stare entro i 2°C, ma se riusciamo ad evitare uno scenario disastroso, come un aumento della temperatura di 5°C, rimarrà un risultato importante. Scendere da 4 a 3°C è forse più importante che scendere da 3 a 2°C. Ovviamente la cosa migliore sarebbe scendere da 4 a 2°C ma l'importante è non imboccare la strada verso un mondo ad altissima temperatura.

L'opinione pubblica quanto conta in questo processo?
Conta molto, perchè alla fine i politici ne tengono conto. Ma l'opinione pubblica non c'è. Il climate change non è considerato un problema tra i più pressanti, quindi l'opinione pubblica è parzialmente a favore, o è divisa per ragioni politiche, ma comunque non è coesa sull'urgenza e sui sacrifici necessare per risolverlo. La dinamica stessa del problema lo rende difficile. Ma se non riusciamo a pensare al futuro del pianeta, se non riusciamo a immaginarci cittadini di un pianeta in cui vivrà una generazione futura, ovviamente sarà sempre molto difficile trovare una forza, un movimento dal basso, che possa rendere questo problema politicamente importante, com'è successo storicamente per altri problemi di rilevanza sociale.

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