Bruno Pontecorvo avrebbe compiuto cento anni, il 22 agosto
2013. Lo festeggiamo, anche se non c’è più: se ne è andato il 24 settembre del
1993.
Cordiale e gentile con tutti, Bruno è un genio anomalo, dotato di una
immaginazione che va molto al di là di quella “inferenza fisiologica” di cui
parla Betrand Eussell, che nutre le rappresentazioni mentali su cui si basa la
fisica ingenua, aristotelica, che accomuna tutti noi. L’immaginazione di Bruno
fu, ben presto, quantistica. Nei secondi anni ’40 del ‘900, un’Italia stremata
dalla guerra completò un esperimento di estrema importanza, che fece nascere la
“fisica delle particelle elementari”: l’esperimento di Marcello Conversi,
Ettore Pancini e Oreste Piccioni. I tre, identificarono il mesotrone, detto
oggi mesone mu (m) o muone, per distinguerlo dal mesone pi
greco (p)
o pione che il giapponese Hideki Yukawa aveva preconizzato come mediatore delle
interazioni nucleari (e che fu scoperto più tardi). Il muone sembrava proprio
un elettrone duecento volte più pesante del più leggero componente dei
comunissimi atomi. Bene: se elettrone pesante era, il mesotrone dei raggi
cosmici, instabile e di corta - ma non cortissima - vita (evidentemente
prodotto nell’alta atmosfera e che durava quanto basta per arrivare a Terra
viaggiando quasi alla velocità della luce) si sarebbe disintegrato in un
elettrone e un fotone, entrambi energici. E invece no: si vedeva solo un elettrone
sparato da un muone morto; e nemmeno un elettrone di un’energia ben definita,
ma assortita in un intervallo continuo; il che stava a significare che il muone
era schiantato in un elettrone e almeno due particelle neutre, invisibili.
Bruno approfittò del successo di Wolfgang Pauli ed Enrico Fermi con l’introduzione
dei neutrini nelle interazioni deboli che presiedono ai decadimenti lenti come
quello del muone (2 microsecondi); ma azzardò addirittura che i due neutrini
fossero diversi. Uno come partner fisso del muone primario, l’altro come
partner dell’elettrone. Non a caso, la pietra tombale nel Cimitero degli
Inglesi (Roma, Piramide) reca, in simboli, la misteriosa scritta: il neutrino-mu
è diverso dal neutrino-e. Bruno se lo immaginò all’età in cui oggi un giovane
fisico starebbe facendo il dottorato di ricerca: il Nobel se lo prese un altro,
che dimostrò che aveva ragione Pontecorvo con un esperimento; leggete Neutrino, di Frank Close (in italiano, Raffaello
Cortina, 2012) e capirete l’enorme importanza di questo colpo di immaginazione.
Bruno Pontecorvo, il Cucciolo dei ragazzi di via Panisperna,
prese parte nel 1934 alla scoperta dei neutroni lenti quando aveva 21 anni;
poi, iniziò a migrare sotto la minaccia delle leggi razziali, fu “regalato”
per breve tempo a Francia, USA e Canada per poi decidere, anche per l’influenza
politica di Frederic Joliot, di migrare in Unione Sovietica. Lì, in URSS,
divenne ben presto oggetto delle attenzioni dei servizi segreti, una sorte tra
le peggiori che possano capitare nel mondo contemporaneo. Lo conobbi a Dubna,
dove pranzò alla mensa del Laboratorio con alcuni di noi italiani invitati a un
convegno internazionale. Volle ridere e scherzare con noi, perché ritrovava il
suo mondo perduto e difficilmente recuperabile. Ma non lavorò mai a ordigni
nucleari o altre specialità militari, nonostante i sospetti e qualche
persecuzione a mezzo stampa. Bruno Maksimovich Pontekorvo voleva rivederci in
Italia e dovette aspettare sino al settantesimo compleanno di Edoardo Amaldi,
di 5 anni più anziano di lui, per riuscirci. In Italia, aveva il celebre
fratello Gillo, regista: in Inghilterra, il fratello Guido, biologo-genetista
molto bravo. Bruno era andato in URSS nel 1950 e lì aveva continuato il suo
lavoro sia teorico in senso stretto che di intuizioni sperimentali sulla
rivelazione dei neutrini e degli antineutrini. E in questo lavoro si espresse
precocemente, già negli ultimi anni ’50, sulle cosiddette “oscillazioni dei
neutrini”, che hanno risolto, molti anni dopo, difficili problemi di fisica fondamentale e di
astrofisica solare (cf. Close, citato sopra).
Alla fine, tornò a Roma, accolto
a braccia aperte da Gillo e dalla comunità dei fisici romani, pochissimi dei
quali lo avevano già incontrato. Lo ospitammo con affetto, preoccupati del suo
Parkinson sempre più grave. Volle tornare a Dubna, la sua seconda patria: si
fece ridare la sua bicicletta; il Parkinson lo tradì, cadde e si ruppe il
femore; volle curarsi a Roma, fu imbarcato in aereo con mille attenzioni ma il
suo fisico non resse a questo azzardato trasloco: in pochi giorni, se ne andò.
Bruno, il nostro più prezioso collega…
Miriam Mafai scrisse un libro su di
lui, una biografia romanzata: mi telefonò per avere un curriculum scientifico
da inserire senza dire sciocchezze; Bruno era lì con me e accettò di scriverlo
lui stesso. Lo trovate lì, nel volume Il
lungo freddo (Mondadori, 1992).