Credo nessuno metta in dubbio che, per noi abitanti del
pianeta Terra, tra gli elementi e i composti chimici che conosciamo l'acqua
occupi il primo posto. Nonostante questa indiscussa importanza, sull'origine
del prezioso elemento le idee non sono affatto chiare. A lungo aveva tenuto
banco l'ipotesi che prevedeva un'origine endogena, cioè uno scenario in cui
l'acqua terrestre fosse tutto sommato quella che era dispersa nei materiali
presenti nella zona in cui, quattro miliardi e mezzo di anni fa, si stava
formando la Terra. Nessun bisogno di rabbocco successivo, dunque, se non in
misura davvero minima.
L'obiezione più pesante a questo scenario è sempre stata quella che chiama in
gioco le elevate temperature che caratterizzarono i processi di aggregazione
alla base della formazione del nostro pianeta: vaporizzando e disperdendo il
prezioso elemento, il suo accumulo nelle quantità attuali non sarebbe stato
possibile. L'obiezione è indubbiamente importante. Potremmo, però, riuscire a
eluderla se si mostrassero corrette le conclusioni di un team di ricercatori
del Woods Hole Oceanographic Institution pubblicate a fine ottobre
su Science. Secondo questo studio, basato sull'analisi isotopica di
meteoriti provenienti dall'asteroide Vesta, la composizione di questi materiali
è molto simile a quella di alcune rocce terrestri e a quella delle condriti
carbonacee, una tipologia di meteoriti ricca d'acqua. Questo ha
portato i ricercatori a sostenere che l’acqua terrestre probabilmente si sia
accumulata fin dai primi momenti della formazione del pianeta, assieme
all'accumulo delle rocce, grazie proprio all'apporto di questi materiali.
La Terra,
insomma, si sarebbe formata come un corpo bagnato con acqua sulla sua
superficie. Se, però, mettiamo in conto che, ai primordi della sua
vita, il Sole era più caldo e attivo di quanto non lo sia ora, i giochi si
riaprono nuovamente. Questo, infatti, sposterebbe inevitabilmente più in là la
distanza limite in grado di garantire che i materiali potessero essere
sufficientemente ricchi d'acqua. Avremmo insomma comunque bisogno, per il
benefico rifornimento d'acqua, di dover invocare un'opportuna fonte esterna e
un meccanismo sufficientemente plausibile.
Con l'aumentare delle nostre conoscenze sulle tormentate
fasi iniziali dell'esistenza della Terra e la scoperta non solo di un periodo
di intenso bombardamento cosmico, ma anche del suo sgradevole
persistere (fortunatamente con frequenza ed energie di gran lunga
inferiori), il meccanismo degli impatti poteva rappresentare una modalità
estremamente plausibile per l'apporto dell'acqua sul nostro pianeta.
Tra i proiettili più gettonati per rivestire questo ruolo di portatori d'acqua
vi erano, ovviamente, le comete. La loro natura di “palle di neve sporca”,
secondo il modello suggerito nel 1950 da Fred Whipple, li rendeva gli
oggetti celesti ideali per quel provvidenziale rifornimento. Occorreva però
verificare che i ghiacci che le componevano fossero compatibili con l'acqua dei
nostri oceani. Una verifica che doveva fondarsi sulla composizione stessa del
prezioso elemento, valutando cioè quali isotopi di idrogeno fossero coinvolti.
Nell'acqua terrestre, infatti, ogni 6700 atomi di idrogeno che, uniti all'atomo
di ossigeno, compongono la molecola del prezioso elemento, si trova un atomo di
deuterio (sostanzialmente un atomo di idrogeno il cui nucleo contiene
anche un neutrone): una firma chiara e leggibile che individua univocamente
l'acqua del nostro pianeta.
Sfortunatamente le osservazioni da terra dei rapporti tra deuterio e idrogeno
nelle chiome cometarie aveva sempre dato risultati incompatibili (troppo alti).
Sull'affidabilità di tali osservazioni, però, vi erano grosse ombre. Osservare
le chiome cometarie attraverso un'atmosfera ricca di vapore d'acqua non era
proprio un lavoro semplicissimo. L’occasione di scavalcare il fastidioso filtro
dell’atmosfera si presentò nel 1986, in occasione del ritorno della cometa
di Halley. Tra le numerose sonde lanciate per l’occasione, vi era
anche la sonda Giotto, costruita e gestita dall’ESA e destinata a
entrare nella storia come prima missione europea nello spazio profondo. Volando
nella coda della cometa, gli strumenti di Giotto appurarono che l’acqua della
1P/Halley aveva un rapporto D:H (deuterio/idrogeno) ben più elevato, pari ad
almeno il doppio di quello dell’acqua terrestre. L’individuazione delle comete
come portatrici dell’acqua sulla Terra cominciava insomma a vacillare. Era però
solo l’inizio di una intrigante altalena di risultati che avrebbero reso sempre
più enigmatica l’origine cometaria dell’acqua terrestre.
Dopo la Halley, infatti, vennero prese di mira altre comete e misurato anche
per esse il valore del cruciale rapporto D:H, con risultati molto contrastanti.
Nel 2011, per esempio, il telescopio spaziale Herschel dell’ESA, osservò la cometa
103/P Hartley 2 misurando un valore di quel rapporto davvero molto simile a
quello dei nostri mari. Poiché ad analoga conclusione portavano anche le
osservazioni della cometa 45P/ Honda-Mrkos-Pajdušáková, l’idea del rifornimento
cometario riprese vigore.
Cominciava altresì a diventare evidente che non si poteva
fare di tutte le comete un fascio. Era piuttosto chiaro che le comete
caratterizzate, come la Halley, da un periodo orbitale maggiore e provenienti
dunque dalla Nube di Oort non potevano essere chiamate in causa per
l’acqua terrestre: il rapporto isotopico deuterio/idrogeno che le
caratterizzava era troppo elevato. Molto più promettenti apparivano invece le
comete provenienti dalla Fascia di Kuiper. In particolare si vedevano di
buon occhio le cosiddette comete della Famiglia di Giove, oggetti che,
in occasione del loro passaggio nella zona planetaria, erano stati catturati
dalla potente gravità del Pianeta gigante.
Dato che a questo nutrito gruppo di comete appartiene anche la
67P/Churyumov-Gerasimenko, obiettivo del recente storico attracco cometario
della missione Rosetta, si attendevano con ansia i dati che la riguardavano.
Nei giorni scorsi, finalmente, sono stati pubblicati su Science i risultati delle misurazioni del fatidico rapporto D:H
e le carte in tavola sono state nuovamente rimescolate.
I dati raccolti dallo strumento ROSINA (Rosetta
Orbiter Spectrometer for Ion and
Neutral Analysis) hanno infatti indicato che l’acqua della cometa 67P contiene
tre volte più deuterio di quella terrestre. Il rapporto è persino più elevato
di quello che caratterizza tutte le comete provenienti dalla Nube di Oort
esaminate finora. I dati pubblicati dal team coordinato da Kathrin Altwegg
(Università di Berna) sono stati ottenuti dalle rilevazioni dello spettrometro
DFMS, 50 spettri raccolti tra i primi giorni di agosto e i primi giorni di
settembre. “Questo sorprendente risultato
- ha commentato la ricercatrice svizzera - potrebbe
suggerire origini differenti per le comete della Famiglia di Giove indicando
che probabilmente si formarono entro un intervallo di distanze molto più ampio
di quanto abbiamo finora pensato. I nostri dati, inoltre, ci portano a
escludere che tali comete contengano esclusivamente acqua come quella degli
oceani terrestri, offrendo dunque più consistenza ai modelli che chiamano in
causa gli asteroidi quali principali responsabili.”
Tali modelli vantano già a loro favore il fatto che la composizione condritrica di un gran numero di asteroidi orbitanti tra Marte e Giove li rende potenzialmente ricchi di acqua con il giusto rapporto isotopico. A questo si aggiunga che recenti sviluppi del cosiddetto Modello di Nizza, lo scenario che descrive la dinamica della formazione del nostro sistema planetario, prevedono l’importante ruolo giocato dalla migrazione dei pianeti giganti. Una migrazione che, come contemplato nello scenario del cosiddetto Jupiter Grand Tack (la Grande Virata di Giove), avrebbe sconvolto la popolazione asteroidale dirottandone parte verso le regioni più esterne e parte verso le regioni più interne, Terra compresa. I meccanismi dinamici, insomma, sarebbero efficaci, come pure la corretta ricetta isotopica degli oggetti coinvolti in quel carosello.
Chi si aspettava, dunque, che l’incontro ravvicinato con la cometa potesse sciogliere una volta per tutte la diatriba riguardante la fonte dell’acqua terrestre deve mestamente accantonare le sue attese. Anche perché, come suggerito nel comunicato stampa dell’ESA, anziché chiarire i molti dubbi, Rosetta ha finito col gettare benzina sul fuoco nell’annoso dibattito sull’origine della nostra acqua.