Se è vero che denazificare la Shoah avrebbe il sapore irrimediabilmente vacuo della filosofia della storia, dove ogni evento viene ridotto all’inveramento di una legge che inesorabile muove le sorti delle umane gesta (alcuni la chiamano “Provvidenza”, altri “Spirito”, altri ancora “Struttura”), è altrettanto vero che addebitare la violenza genocidiaria dispiegata ad Auschwitz alla sola ideologia nazista o magari alla lucida follia di un solo uomo, attribuire il male assoluto al demonio incarnato in quell’”imbianchino” che sognava di trasformare la Germania in un “Impero millenario”, avrebbe il sapore decisamente nauseante dell’ipocrisia intellettuale.
Non c’è dubbio, le radici della “soluzione finale” (Endlösung) affondano nel terreno circoscritto della politica razziale e totalitaria del Terzo Reich e del viscerale antisemitismo völkisch che ne costituì il cuore pulsante, ma relegare, come pure è stato fatto e si continua a fare, quella orribile pagina del nostro passato recentissimo alla sola storiografia tedesca sarebbe un grave errore. La “soluzione finale” ha infatti radici profonde. Come ha scritto Enzo Collotti nella sua prefazione a il “Mito ariano” di Leon Poliakov: “Ciò che di orrendo è accaduto in Germania non è che la punta estrema di un processo mentale e sociale che ha coinvolto il pensiero e la storia dell’Europa occidentale. Detto in altri termini: il pensiero cristiano e occidentale non è innocente per quanto è accaduto in Germania, nessun tabù e nessuna rimozione possono valere a circoscrivere unicamente alla Germania la responsabilità e l’ombra di quanto è stato fatto agli ebrei”.
Un notevole scossone ai “tabù” e alle “rimozioni” di cui parla Collotti è stato senz’altro assestato dalla voluminosa ricerca recentemente pubblicata da Francesco Germinaro. Già noto e apprezzato per le sue monografie dedicate alle varie costellazioni politiche e intellettuali del nazismo e del fascismo, nelle quasi quattrocento pagine di Costruire la razza nemica. La formazione dell’immaginario antisemita tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, Germinaro ha analizzato nel dettaglio le intricatissime trame di uno dei periodi più densi e complessi della storia contemporanea. Spesso gettati nell’ombra dalle enormità del totalitarismo nazista, questo libro ha tra gli altri il merito di richiamare la nostra attenzione su tutti quei fenomeni della cultura europea fin de siècle che non possono essere più considerati come semplici accessori se davvero si vuol capire il perché dell’implosione di una civiltà (apparentemente) fondata sui valori cristiani dell’amore per il prossimo e della sacralità della persona umana, e sui valori illuministici di uguaglianza e di fratellanza tra i popoli.
Cospirazionismo antisemita, ebreizzazione dei rivoluzionari e del nemico in genere, ebreizzazione della modernità e dei suoi mali, persino “de-ebreizzazione” di Gesù, in sintesi: stereotipizzazione del diverso e, tra i diversi, innanzitutto dell’ebreo, tra i diversi il più detestabile perché spesso “invisibile”, come avrebbero sottolineato i vari “papi” e “profeti” dell’antisemitismo come Drumont, Sombart, Maurras e Martin-Chagny. Queste le categorie interpretative elaborate e diffuse nei primi decenni del Novecento da una ridondante pubblicistica colpevolmente ancora poco frequentata dagli storici. Può sembrare paradossale, ma proprio nel momento del trionfo del liberalismo, nel pieno di una congiuntura politica e culturale segnata dalla riconoscimento delle minoranze e dalla concessione della cittadinanza agli ebrei da parte degli Stati nazionali, il dibattito europeo era dominato da un’ermeneutica dell’ostracizzazione, il più delle volte ammantata da una sedicente scientificità di contenuti e di metodi, in virtù della quale ogni perversione della modernità non mancava di trovare il suo comodo capro espiatorio.
Come sappiamo, dei capri espiatori su cui si scagliò la violenza delle masse l’ebreo rappresentò il paradigma. Le ragioni di questa “preferenza” sono molte e tutte ben argomentate nel libro. Quel che sin d’ora è importante segnalare è che l’antisemitismo nazista ha potuto tradursi in un’infernale politica di sterminio proprio perché aveva alle proprie spalle una consolidata tradizione teorica, un “vero e proprio universo ideologico” a partire dal quale si è potuta fabbricare la “questione ebraica”. Come ha scritto Raul Hilberg, “i nazisti avevano bisogno di uno stereotipo; gli serviva poter utilizzare un’adeguata rappresentazione degli ebrei, ed è dunque carico di conseguenze il fatto che, nel momento in cui Hitler giunse al potere, l’immagine esistesse già, che i tratti del modello fossero già fissati”.
Come dire: mentre gli Stati erano formalmente impegnati nella costruzione dell’uguaglianza tra gli uomini (a cominciare da quella politica), i saperi scientifici e fette sempre più ampie dell’opinione pubblica erano impegnati nella settarizzazione dell’umano. Portando alla luce libri spesso lasciati dormire nelle biblioteche e riviste dimenticate, Germinaro mostra nel dettaglio come già nel 1914, quindi addirittura prima della Grande Guerra, l’immagine del diverso da abbattere fosse già pronta per l’uso. E una volta al potere nessuno poté più arrestare l’automatismo che tiene alla costruzione teorica del diverso fa seguire la sua distruzione nei fatti.