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Le performance sportive, tra scienza ed etica

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Ai giochi olimpici di Saint Louis del 1904 la medaglia per la maratona se la aggiudicò l'americano Thomas Hicks che riuscì a battere stanchezza, caldo e umidità grazie ad un cocktail dietetico a base di solfato di stricnina, uova e brandy. A fine corsa, ci vollero quattro medici per rimetterlo in piedi. Ad oltre un secolo di distanza, in occasione del nuovo appuntamento olimpico in corso a Londra, la comunità medico-scientifica e quella sportiva ancora dibattono su quella che oggi potremmo definire l'etica del potenziamento del corpo dell'atleta. Si tratta di un argomento che non coinvolge più soltanto gli addetti ai lavori. La percentuale di persone che praticano sport a livello non agonistico è aumentata ovunque negli ultimi decenni. Di conseguenza, anche il tema del doping è entrato a far parte di realtà molto più vicine a tutti noi di quanto possa essere quella degli spogliatoi olimpici. Al punto che, proprio in nome del fair play, chi condanna rigidamente ogni forma di doping trova un perfetto contraltare nella crescente pratica di "integrare" e "potenziare" le performance di sportivi di ogni livello e categoria.

Da un lato, quindi, il partito dell'anti-doping elenca i danni permanenti che possono colpire gli atleti che fanno uso di sostanze non consentite, l'onta di gareggiare ad armi impari e la responsabilità di sporcare lo sport, che dovrebbe esaltare ideali di salute, leale competizione, merito. Dall'altro, si obietta che spesso le sostanze assunte dagli atleti hanno un'azione protettiva rispetto allo sforzo di allenamenti intensissimi, che non esistono nemmeno in natura condizioni perfettamente equivalenti e che proprio per questo a volte occorre equilibrare artificialmente il dislivello fra atleti provenienti da realtà diverse (per etnia, morfologia, economia). Un altro aspetto interessante è che se anche lo sport, come altri settori, evolve e aspira a rappresentare fedelmente la società è impensabile ignorare i progressi messi a disposizione da scienza, medicina e tecnologia.

Tutti ottimi argomenti che minano l'inattaccabile superiorità morale dell'approccio anti-doping a tolleranza zero. Anche volendo recuperare lo spirito sportivo più autentico, è giusto ricordare che perfino gli antichi greci e romani non disdegnavano l'effetto rinvigorente di erbe e funghi. Da qui la domanda fondamentale: cosa può essere tollerato e cosa invece deve essere rifiutato? Qual è il limite consentito?

Sono quesiti sui quali l'Agenzia Mondiale Antidoping (WADA) si interroga dal 1999, avendo ereditato un dibattito avviato già negli anni ‘20. Le situazioni da monitorare e da normare vanno ormai al di là dell’uso improprio di sostanze. Presto, se non già adesso, il doping non si servirà più soltanto di steroidi anabolizzanti ed altri ormoni, trasfusioni di sangue, supplementi nutrizionali e farmaci che nascono per la cura di patologie gravi come il cancro, l’AIDS, la distrofia muscolare. Siamo entrati nell’era di soluzioni quasi fantascientifiche che complicano ulteriormente il dibattito bioetico. Pensiamo alle possibilità offerte dal doping genetico, dalla chirurgia (in grado, per esempio, di creare mani e piedi pinna per nuotare davvero come pesci), dalle nanotecnologie e dalla prostetica meccanica (il sudafricano Oscar Pistorius è solo il primo di una nuova generazione di atleti). Settori affascinanti che promettono di trasformare non solo il corpo dello sportivo, ma lo sport stesso. Così come l’invenzione della bicicletta ha portato alla nascita del ciclismo, la messa a punto di arti bionici potrebbe accompagnare il lancio di nuove discipline.

Un punto deve essere però sempre mantenuto: la salvaguardia della salute. Proprio per proteggere chi pratica uno sport, c’è chi propone, provocatoriamente, la creazione di una Agenzia Mondiale Pro-Doping per studiare forme innocue di potenziamento del corpo o garantire limiti di volta in volta valicabili con cognizione di causa e valutando gli effetti collaterali. E’ lo stesso razionale che sta alla base delle politiche di Riduzione del Danno per l’abuso di sostanze stupefacenti e del tabacco: visto che non è possibile vietare completamente il ricorso a varie forme di doping, facciamo in modo per lo meno che la salute dell’atleta venga protetta.

Gli strumenti non mancano. A cominciare dal nuovissimo laboratorio olimpico antidoping, inaugurato lo scorso gennaio nell’Essex grazie alla collaborazione fra un colosso farmaceutico e il King’s College di Londra. Ad oggi la struttura ha già analizzato migliaia di campioni di sangue e di urina con tecniche e strumenti talmente innovativi che permettono addirittura uno screening retroattivo per un numero di sostanze sempre maggiore. Una volta terminati i giochi olimpici la struttura stato dell’arte continuerà a stabilire record di attività, poiché promette di lavorare a ritmi serrati dedicandosi soprattutto all’ambito del fenotipo metabolico: passando sotto la supervisione dei principali enti nazionali di ricerca, il Medical Research Council e il National Institute for Health Research.


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