Un progetto gigantesco, uno sforzo di migliaia di persone, un’avventura che era appena iniziata, il 10 settembre 2008, con clamore mediatico (200 giornalisti, Google che ci dedica la sua pagina): e poi il grande stop solo nove giorni dopo. Con tutti giornalisti che – avendo appreso la strada nel giorno di gloria della partenza – sono ritornati fulminei a chiedere come mai la macchina si fosse rotta e di chi fosse la colpa. La colpa, sì, perché anche se non detto apertamente nei primi giorni, il punto era capire come mai, ma anche per quale negligenza o responsabilità l’incidente si era prodotto.
Il guasto è stato causato da un difetto della connessione elettrica tra i magneti superconduttori. Alle correnti di 12’000 A (ampere) occorre che la resistenza nelle connessioni sia più bassa di 1 nanoOhm (ovvero un milionesimo di Ohm). Valori molto piccoli ma che si sanno fare, normalmente si raggiunge 0.2-0.4 nanoOhm. La connessione difettosa presentava una resistenza di oltre 200 nanoOhm, e causò l’innesco di una deriva termica a circa 9'000 A che ha portato alla fusione dell’interconnessione ed alla fine al danneggiamento di 39 magneti superconduttori e la fuoriuscita nel tunnel di circa 6 tonnellate di elio liquido. A parte la sorpresa di non aver intercettato un tale difetto, il punto è che gli studi e misure che abbiamo fatto in seguito all’incidente ci hanno rivelato delle debolezze intrinseche delle connessioni LHC. Tali debolezze possono essere riassunte in una mancanza di stabilità in molte (20% o più) delle connessioni LHC. Il difetto è così grave da richiedere un funzionamento di LHC a regime ridotto per i prossimi due anni e poi un anno di stop per riparare tutto il sistema prima di raggiungere finalmente le prestazioni nominali nel 2013.
Una questione che ci viene spesso rivolta è se l’incidente era evitabile. Certo, come in tutti gli incidenti, la causa ultima è un errore umano: una concezione insufficiente, un’esecuzione difettosa, una procedura con smagliature, dei controlli inadeguati. Tutto questo si è verificato. Io penso però che la vera questione sia più profonda e, in un certo senso, al cuore della nostra umanità. Abbiamo affrontato il problema dell’installazione, interconnessione e collaudo, con troppa spavalderia o meglio con una mancanza di umiltà di base: non siamo partiti dal principio che l’errore è connaturato con il nostro agire (chi non fa non sbaglia) e quindi non ci siamo chiesti: ci sarà almeno un difetto grave tra le 10'000 e più interconnessioni, e cosa succede se non lo intercettiamo? E come intercettarlo almeno prima che faccia un danno ingente? Ora sappiamo che possiamo vedere difetti anche molto più piccoli di quello dell’incidente, possiamo tranquillamente riconoscere che la parte d’integrazione di sistema non era stata sufficiente affrontata. E lo scopo ultimo del riconoscere il nostro limite non è per rimanere bloccati, è per ripartire con un’energia ancora maggiore. Per me personalmente, ripartire con questa coscienza ha voluto dire trovare le risorse umane e psicologiche per correre l’avventura della riparazione di LHC: solo imparando dalla propria esperienza, e tanto più dai propri sbagli, si può – e si deve – migliorare. LHC è il più complesso strumento scientifico mai costruito. Il suo funzionamento dipende certo dalla competenza dei vari fisici e ingegneri, ma dipende anche dalla capacità dei singoli di fare squadra, di sapersi integrare e di trovare motivazioni adeguate.
Approfondimenti. Lo scorso 22 febbraio Lucio Rossi ha pubblicato un dettagliato articolo su "Superconductivity: its role, its success and its setbacks in the Large Hadron Collider of CERN" sulla rivista Superconductor Science and Technology.