La riforma dell’Università è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 14 gennaio scorso. Come molti avevano denunciato è tutt’altro che una riforma epocale. In attesa della miriade di decreti attuativi (quasi 50) che dovranno essere emanati per darle una fisionomia definitiva, si evidenziano gli enormi limiti di una stesura approssimativa, confusa e pasticciata. Pur di portare a casa la legge, si è esautorato il dibattito parlamentare e si è scientemente evitato il confronto con la comunità accademica in tutte le sue articolazioni, senza tenere nel debito conto né le criticità segnalate da più parti né tanto meno le proposte avanzate per correggere evidenti carenze e contraddizioni. E così si è gettata nel pieno marasma una delle istituzioni strategiche per il futuro del Paese.
Nei mesi passati, sia in molte sedi istituzionali dell’accademia sia nelle piazze, si sono sottolineati i gravi limiti di impianto della legge. Il suo arretramento rispetto all’esistente per quanto riguarda l’autonomia dell’università e la valutazione, il sistema di governo, lo stato giuridico e il reclutamento della docenza, la valorizzazione del personale tecnico-amministrativo, il diritto allo studio, il dottorato di ricerca. Ma oggi, accanto a questi rilevanti problemi nell’impostazione del provvedimento, si evidenziano limiti nella microfisica della vita quotidiana delle università. Tanto per fare qualche esempio, non si sa più bene che cosa succederà del dottorato; sono in forse gli assegni di ricerca che permettono ai giovani di proseguire le loro ricerche; i contratti per attività didattica, anche gratuiti, sono fortemente limitati da una formulazione confusa e farraginosa; sono bloccati i concorsi, e i tagli del cosiddetto “mille proroghe” sembrano mettere una seria ipoteca sulle possibilità di attivare quel reclutamento straordinario di professori associati che il ministero aveva promesso come merce di scambio per l’approvazione del provvedimento.
Il governo, con una maggioranza parlamentare compiacente, ha già fatto un danno con l’approvazione del provvedimento. E la speranza è che nei decreti attuativi cerchi di correggere alcuni degli errori fatti. Tuttavia ora una responsabilità importante tocca alla comunità accademica. La confusione e l’irresolutezza del provvedimento lasciano spazi di manovra da subito, nella prima delle numerose incombenze che per qualche anno dovranno essere sopportate dalle università. Stiamo parlando della revisione degli statuti per quanto concerne gli “organi e l’articolazione interna delle università”. Gli Atenei sono chiamati a fare la loro parte. La legge prescrive precise modalità di composizione della Commissione che deve proporre le modifiche statutarie che verranno discusse e approvate dal Senato Accademico (SA) “previo parere favorevole” del Consiglio di Amministrazione (CdA). Chiedere un’elezione a suffragio universale dei membri della Commissione non ha senso, né nella forma (la legge Gelmini) né nella sostanza: SA e CdA sono oggi organi elettivi che rappresentano tutte le articolazioni della comunità accademica. Se non sono in grado di esprimere persone competenti e autonome è fatto grave, ma sembra abbastanza difficile che chi ha votato i membri di SA e CdA possa riuscire a fare meglio. Su questo punto si sono aperti contenziosi in vari Atenei, anche se il lavoro della Commissione passerà comunque al vaglio di SA e CdA. Non è insomma definitivo. Ora però, al di là di polemiche sterili, sarebbe importante convincerci tutti che in gioco non c’è qualche operazione di maquillage dei vecchi Statuti. Il contesto normativo e la situazione del Paese sono talmente mutati che gli interventi non potranno che essere sostanziali. Le contrapposizioni in seno all’accademia dovrebbero lasciare una volta tanto il posto a una seria riflessione comune. A una collaborazione diffusa per la messa a punto di proposte che diano all’Università una prospettiva di lungo periodo, che prescinde da questo o quel rettorato, da questa o quella lobby o corporazione, e che ha invece come orizzonte la crescita culturale e civile dell’Italia. Un segnale da dare all’intero mondo universitario italiano e a una classe politica complessivamente miope. Un colpo d’ali di cui tutti sentiamo il bisogno.