C’è un’Italia che lavora, e lavora bene. Un’Italia di studenti che si sono laureati in corso con il massimo dei voti, con i sacrifici di genitori che l’università, loro, non l’avevano neppure potuta frequentare. I migliori studenti hanno scelto di rimanere in università e hanno frequentato un dottorato di ricerca, e poi qualcuno si è specializzato all’estero per poi tornare,e altri sono rimasti nello stesso dipartimento per anni, e anni, dietro l’illusione di un concorso da ricercatore che non è arrivato mai. E che con la nuova legge Gelmini 240/2010 non arriverà mai. In alcune facoltà, gli aspiranti ricercatori svolgono la maggior parte della ricerca, perché l’unica cosa che conta, per i concorsi universitari, sono i titoli, e cioè il numero di pubblicazioni su riviste internazionali della materia di competenza. È per quelle pubblicazioni che lavori, per i risultati della tua ricerca, che altri nel mondo posso leggere, condividere. È il valore della conoscenza che l’aspirante ricercatore produce nel suo laboratorio, nel suo ufficio, nella sua biblioteca. Attraverso un lavoro di studio continuo, serio, onesto.
Sono dottorandi, post doc, collaboratori a progetto, cococo, seminaristi, borsisti, vincitori di premi di studio, assegnisti di ricerca. Mille nomi per dire la stessa cosa. Lavoratori precari, con contratti che non prevedono avanzamento di carriera, né ferie, né malattia, né tredicesima, e versamenti su gestioni INPS separate. E quando, se capita, finiscono i fondi all’università, da un giorno all’altro, il contratto finisce. Grazie e arrivederci. A trentacinque, quaranta, quarantacinque anni con una specializzazione altissima nel proprio lavoro, dimostrato da pubblicazioni, presentazioni a congressi, progetti di ricerca, a cui si affianca l’attività didattica e i corsi di insegnamento universitario, in alcuni casi brevetti e trasferimento tecnologico, questi aspiranti ricercatori, che l’università ha formato a sue spese per anni, si trovano a non avere nessuna prospettiva di inserimento nel mondo accademico. L’università di oggi non assume, ma riduce i posti di lavoro, con la stridente contraddizione che molto spesso i docenti in pensione rimangono al loro posto attraverso contratti di docenza. Ma la maggior parte della ricerca viene svolta da quei giovani aspiranti ricercatori che rappresentano circa un quarto del personale strutturato e che non hanno alcun diritto, neanche quello che l’esperienza maturata nel proprio lavoro venga riconosciuta nei concorsi pubblici. Per non parlare dei figli di papà.
Non voglio infatti qui parlare del viceministro Martone, ragazzo prodigio che è diventato ricercatore a tempo indeterminato all’indomani della conclusione del suo dottorato di ricerca e che ha scalato l’intera carriera accademica, ricercatore, professore associato e professore ordinario diventando PO a ventinove anni con un’invidiabile curriculum (ben una pubblicazione). E nemmeno voglio parlare di Silvia Deaglio, figlia del ministro Fornero, professore associato a tempo indeterminato nella stessa università dei genitori, il cui curriculum è sicuramente all’altezza di una carriera universitaria di rispetto. Voglio parlare di tutti quei figli di nessuno che lavorano nelle università italiane con onestà e rispetto, che hanno scelto di restare in Italia a fare ricerca, e tutti quelli che sono stati costretti a fare ricerca all’estero perché qui non hanno trovato un’adeguata posizione professionale. Voglio parlare di un’Italia sana, che da anni vive con contratti precari in università che sono come monoliti, chi è dentro è dentro, e chi è fuori è fuori. Questi aspiranti ricercatori sono tanti, e tra poco usciranno dall’università perché non c’è posto per loro, e perché la legge Gelmini con eleganza non gli garantisce nessun ingresso nell’accademia. Questi aspiranti ricercatori che ricercatori non saranno mai, avranno semplicemente lavorato tanto e bene, avranno tante belle pubblicazioni, tanti bei congressi, tante bei finanziamenti, tanti quanti Silvia Deaglio, però non avranno un posto di lavoro, e nemmeno una buona uscita, e nemmeno un grazie. Non è Martone il problema dell’Italia, non è nemmeno Silvia Deaglio. Il problema sono tutti gli altri, tutti quelli con un bel curriculum, e nient’altro.