I nostri
giovani, malgrado tutto e con crescente difficoltà, resistono. Ma l’Italia ha
perso ogni residua capacità d’attrazione. Il responso della selezione 2013 della
cosiddetta ERC junior, ovvero i grants appena assegnati dallo European Research
Council ai giovani ricercatori dell’Unione e dei paesi associati non poteva
essere più chiaro.
Su 287 fondi per portare avanti un
progetto di ricerca (grants) assegnati, i giovani italiani ne hanno vinto 17:
il 5,9% del totale. Non molti, tenuto conto che nel 2008, in un’analoga (ma non
omologa) selezione ne avevamo vinti 35 su circa 300 (il 12% del totale). Ma
neanche pochi, visto che gli inglesi ne hanno vinto 22 e i francesi 26, pur
avendo un numero di ricercatori – e, soprattutto, di giovani ricercatori –
molto più
nutrito. Solo la Germania si distacca, con 55 grants vinti. Ma la Germania ha,
appunto, un numero di ricercatori tra 3 e 4 volte superiore. Se ancora cinque
anni fa riuscivamo a raccogliere più di quanto seminato, ora raccogliamo
esattamente quanto seminiamo.
Certo, per numero assoluto di successi,
eravamo secondi nel 2008 e ora siamo sesti. Un arretramento c’è stato. Ma la
capacità individuale di competere dei nostri giovani resta, in ogni caso, del
tutto paragonabile a quella dei loro colleghi di altri paesi europei.
Ma è la capacità del sistema paese che,
nel modo più assoluto, non regge il confronto col resto d’Europa. Lo dimostra il fatto
che gli inglesi, con 22 progetti vinti, ne ospiteranno nei loro laboratori 60
(ciascun vincitore può scegliere il paese dove realizzare il proprio progetto
di ricerca). Poiché solo due inglesi tra i vincitori (il 9%) hanno scelto di
realizzare i loro progetti all’estero, significa che la Gran Bretagna è
riuscita ad attrarre 40 giovani ricercatori stranieri. Un autentico trionfo. Tutti
vogliono andare in Inghilterra a fare ricerca!
Al contrario, l’Italia, con 17 progetti
vinti, ne ospiterà solo 8. Siamo riusciti ad attrarre un solo ricercatore
straniero, mentre 10 dei nostri (il 59%) ha preferito andare a spendere i
propri soldi all’estero. Un’autentica debacle.
Un record speculare e opposto a quello inglese. Nessuno, neppure gli italiani, vuole
fare ricerca in Italia!
Perché?
Prima di rispondere alla domanda,
conviene ricordare un’altra performance
clamorosa. Al secondo posto, per successi assoluti, nella classifica quest’anno,
al posto degli italiani, con ben 34 grants ottenuti, ci sono i giovani
ricercatori israeliani. Israele, associato a ERC è un piccolo paese (ha una
popolazione di 7,8 milioni di abitanti, quasi otto volte inferiore a quella
italiana) ma ha un imponente sistema di ricerca (imponente per quantità e
qualità, sia chiaro). E le sue performance dimostrano, al contrario di quanti
molti predicano in Italia, che la
ricerca scientifica non è un lusso che solo paesi grandi e ricchi si possono
permettere.
Ma il risultato più clamoroso è che
Israele ospiterà ben 32 vincitori (31 israeliani e uno straniero). Terzo
assoluto, dopo Gran Bretagna e Germania. In pratica, quasi nessun giovane
israeliano si è sognato di andar via da un paese dove pure, fuori dai laboratori,
la vita non è semplice.
Ma perché i giovani italiani, invece,
vanno via dall’Italia non appena ne hanno l’opportunità? Non è un problema di
soldi, evidentemente. Perché, per definizione, i 10 italiani su 17 che sono
andati via i soldi da spendere in ricerca li avevano: la hanno ottenuti
dall’Europa. E allora è evidente che più che le precarie condizioni
finanziarie, è la (percezione della) qualità ambientale che non regge. Anzi,
che sta crollando. Nel 2008, fra i 35
vincitori italiani andarono via in 13: il 38%. Oggi ad andar via sono stati 10
su 17, il 59%.
Ma cosa, in particolare, spinge un
giovane ricercatore italiano di successo a lasciare il proprio paese, le
proprie abitudini, i propri affetti e ad andare all’estero? Non esiste
un’indagine scientifica che abbia individuato le cause. Ma varie testimonianze
raccolte indicano due cause principali: la logistica e la burocrazia. In Italia
un ricercatore ha meno soldi e, anche, meno strumenti per la ricerca. Tuttavia
i ricchi grants dell’ERC consentono di acquisire il meglio delle tecnologie
disponibili. Volendo, si potrebbe restare. A spingere via è, dunque, l’altra
grande forza, la burocrazia. Onnipresente, asfissiante, opprimente. Suicida.
Un giungla di leggi, leggine, norme,
regolamenti, una tassazione irragionevole (gli stranieri che vengono in Italia,
per esempio, non capiscono perché devono pagare le tasse sulle spese di
viaggio) e una montagna di carte da compilare. Chi porta persone, soldi e
novità dall’esterno in un’università o in un ente pubblico di ricerca si
ritrova di fronte un insuperabile muro di gomma. Questo muro di gomma è sempre
più spesso e sempre più elastico. Non c’è modo di vincere anche solo una
partita. Così chi può, se ne va.
In tutti gli altri paesi (e il tutto
non è iperbolico, perché una recente ricerca ha dimostrato che, per un cervello
che vuole entrare, solo 4 nazioni su 200 al mondo sono più respingenti
dell’Italia ) avviene il contrario. Tappeti rossi ai cervelli che vogliono
entrare e burocrazia al minimo.
Ecco, dunque, un consiglio (non
richiesto) a Maria Chiara Carrozza, il Ministro per l’Istruzione, l’Università
e la Ricerca: realizzi l’unica riforma a costo zero possibile e auspicabile.
Abbatta drasticamente la burocrazia. Tagli leggi e leggine. Smonti norme e
regolamenti. Renda la vita facile ai (pochi, ma ancora bravi) giovani
ricercatori italiani. Faciliti l’ingresso e la permanenza in Italia di quei
giovani ricercatori stranieri che, nonostante tutto, vorrebbero venire da noi.
Non li faccia respingere alla frontiera da una stupida, eppure feroce
burocrazia.
L’unica burocrazia al mondo che non ha
capito che è in atto una “guerra dei cervelli”. E che chi vince questa guerra
virtuosa ha chance molto più alte di costruire un futuro desiderabile. Non solo
in termini di cultura e civiltà. Ma anche in termini economici.
Pubblicato su L'Unità, 23 luglio 2013