Manca
ormai solo un anno da COP 21, la Conferenza delle Parti che hanno sottoscritto
la Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti del Clima, che si terrà a
Parigi alla fine del 2015.
È una riunione politica nel corso della quale i
rappresentanti di duecento paesi o giù di lì decideranno la politica ecologica
ed energetica dei prossimi decenni.
L’obiettivo su cui si discute è se tentare
o meno di contenere il previsto aumento della temperatura media del pianeta per
il 2100 entro i 2 °C rispetto all’epoca pre-industriale.
Nei giorni scorsi la
rivista scientifica Nature si è posta
e ci ha posto due domande: questo
obiettivo ha una base scientifica solida? È un obiettivo politico realistico?
In entrambi i casi la risposta è no. Anche se il doppio diniego non è secco e
va articolato.
In particolare Nature
accredita la possibilità che i tre più grandi emettitori di gas serra – Cina,
Stati Uniti e Unione Europea – trovino un accordo sulla cosiddetta mitigazione
dei cambiamenti climatici. Ovvero, per cercare di prevenire il più possibile
l’aumento della temperatura media del
pianeta.
Non sarà un accordo rigido come il Protocollo di Kyoto, con
indicazione di quote massime di emissione, ma – sostiene Nature – è pur sempre qualcosa. In ogni caso, continua la rivista
inglese, se anche questo accordo dovesse fallire non sarebbe l’Armageddon.
Quanto
al limite dei 2 °C, sostengono sulla rivista David G. Victor, professor
of international relations presso la School of International Relations and
Pacific Studies, University of California, e Charles F. Kennel, distinguished
professor e director emeritus presso la Scripps Institution of Oceanography,
University of California, entrambi a San Diego, La Jolla, in California ha il
pregio di essere chiaro e decifrabile per tutti, esperti e non esperti, ma non
ha un reale significato scientifico.
I cambiamenti del clima sono un processo –
un processo complesso – che non può essere ridotto alla semplice e statica
misura della temperatura media alla superficie del pianeta.
Sono 16 anni, per esempio, che la temperatura
media è stabile, mentre cresce linearmente il calore assorbito dagli oceani. Il
clima sta cambiando, in altri termini, ma la temperatura alla superficie del
pianeta non se ne accorge.
Il limite dei 2°C ha, dunque, un valore più
simbolico che scientifico. Anche se è stato fatto proprio anche dall’IPCC,
l’Intergovernmental Panel on Climate Change, il gruppo di esperti che, dal 1990
a oggi, ha redatto cinque rapporti sui cambiamenti climatici – delle vere e proprie
review – per conto della Nazioni Unite.
L’IPCC è organizzato in tre diversi gruppi di
lavoro, ciascuno composto da centinaia di esperti di ogni parte del mondo che
si avvalgono del lavoro di migliaia di collaboratori. Il Working Group I si
occupa delle basi fisiche dei cambiamenti climatici, il Working Group II degli
effetti ecologici e sociali, il Working Group III dei modelli di mitigazione e
adattamento.
Tutti lavorano gratuitamente. L’IPCC si fonda sul totale
volontariato scientifico e tecnico. Una condizione che è andata bene finora. Ma
non potrà continuare se a Parigi il prossimo anno le Nazioni Unite decideranno
azioni coordinate e incisive. Azioni che, necessariamente, dovranno fare
riferimento a una quantità di dati scientifici comuni prodotti da un organismo
tecnico indipendente, autorevole e capace di fornire risposte precise e
raffinate.
L’IPCC è il naturale candidato a proseguire il suo stesso lavoro. Ma
dovrà cambiare, hanno proposto sempre su Nature alcune settimane fa Thomas
Stocker e Gian-Kasper Plattner,
rispettivamente condirettore e leader dell’unità di supporto tecnico del Working
Group I, entrambi dell’Università di Berna.
La proposta di cambiamento è avvenuta sulla base di
un’indagine che ha coinvolto 172 scienziati appartenenti al Working Group I (il
66% del totale) che nei mesi scorsi ha redatto il quinto rapporto sui
cambiamenti climatici.
Di questi l’80% si è dichiarato soddisfatto del lavoro
svolto e lo rifarebbe. Ma una medesima percentuale di questi scienziati ha dichiarato
di aver avuto molte difficoltà nel gestire i dati. Insomma, la mole di lavoro
è stata molta e molto complicata. Non solo perché i membri del Working Group I
hanno dovuto vagliare 9.200 articoli peer-reviewed e 2 milioni di gigabytes di
dati, coordinando oltre a loro stessi 600 autori e 1.000 referee. Ma
anche perché tutti questi articoli e tutti questi dati sono il frutto di
comunità scientifiche diverse, che usano linguaggi e metodologie difficili da
comparare.
Tutto questo lavoro in futuro dovrà intensificarsi. E questo richiederà un ripensamento dell’IPCC. Occorrerà che le Nazioni Unite creino (e finanzino) una struttura stabile che lavori in maniera professionale e non volontaria, sostengono Thomas Stocker e Gian-Kasper Plattner. Il che non significa pagare gli scienziati che faranno parte dell’IPCC (anzi, loro dovranno continuare a essere stipendiati dalle rispettive università e/o centri di ricerca). Ma significa dotarli delle risorse, soprattutto umane – giovani dottori di ricerca, per esempio – per metterli in grado di svolgere un lavoro continuo e intenso.
Nel 2015, prima di Parigi, il Palazzo di Vetro dovrà nominare il prossimo direttore dell’IPCC. Dovrebbero approfittare di questi mesi per dargli un nuovo mandato e nuove risorse. In fondo all’IPCC si chiederà, né più e né meno, di fornire le basi scientifiche per il più grande problema globale che le Nazioni Unite, per loro stessa convinzione, si troveranno ad affrontare da qui alla fine del secolo.