La libertà di ricerca e la comunicazione necessaria per affermarla come valore democratico assoluto: sono questi i messaggi forti che Pro-Test Italia – una giovane comunità di scienziati, docenti e studenti che hanno l’obiettivo di «creare un punto di contatto tra la realtà della sperimentazione animale e quella della gente comune» ritenuta «spesso ignara o malamente informata a riguardo» – si propone di lanciare domani, 8 giugno, con Italia unita per la corretta informazione scientifica, una serie di eventi che si svolgeranno in contemporanea in tutta la penisola.
Pro-Test
Italia si è costituita sull’onda di recenti fatti specifici, come l’irruzione
di un gruppo di animalisti nei laboratori di Farmacologia della Statale di
Milano e la “liberazione” di alcuni topi e di un coniglio utilizzati in
progetti di ricerca. Il tentativo di questi scienziati e studenti non è solo
quello di denunciare un’inaccettabile violenza, ma di spiegare perché la sperimentazione
animale, condotta secondo le leggi vigenti, è ancora necessaria in molti
settori.
Il
tema dell’uso degli animali in esperimenti scientifici è controverso ed è
oggetto di un vivacissimo dibattito pubblico. E la giornata di domani sarà
certamente capace di alimentarlo, soprattutto se lo collochiamo, il dibattito
pubblico sulla sperimentazione animale, in un quadro più generale: quello,
appunto, della libertà di ricerca e del rapporto tra scienza e società nell’era
della conoscenza.
Scienza, libertà e democrazia
È
allora utile leggere il nuovo libro che Gilberto Corbellini, uno storico della
scienza attento ai correlati filosofici della ricerca, ha appena pubblicato con
Bollati Boringhieri. Il libro, agile e appassionato, si intitola,
semplicemente, Scienza. E si prefigge di decostruire alcuni luoghi comuni che impediscono a una parte notevole della
società italiana (ma non solo) di capire come funziona la scienza. E, in
particolare, come funziona il lavoro degli scienziati. La decostruzione è
propedeutica alla costruzione: di una matura cultura scientifica e, quindi, di
una società democratica della conoscenza.
Corbellini
ritiene (giustamente) che la scienza è sia un valore culturale altissimo – è
l’attività umana che negli ultimi secoli più di ogni altra ha modificato sia la
percezione che l’uomo ha di se stesso, dell’universo in cui vive e dei rapporti
tra l’uomo e l’universo in cui vive – sia un valore pratico altissimo: è grazie
soprattutto alla scienza che la nostra vita quotidiana, oggi, è affatto diversa da quella di un passato neppure tanto lontano.
Attenzione,
sostiene però Corbellini. Perché dobbiamo tenere conto di due fattori.
Il primo
è che la scienza ha modificato la nostra percezione del mondo e di noi stessi
navigando contro il senso comune. La scienza, come sostiene il biofisico Alan
Cromer è “uncommon sense”: senso con comune. Questa caratteristica fondamentale
della scienza rende un po’ più difficile il suo rapporto con la società. O
meglio tra la comunità scientifica che,
nel produrre nuova conoscenza, naviga contro il senso comune e i cittadini non
esperti che, nella loro vita quotidiana, usano il senso comune. Anche se la
cultura – anche la cultura generale – aiuta a discernere tra senso comune e
“uncommon sense”. Insomma, anche noi cittadini comuni possiamo (imparare a)
navigare contro la corrente del comune sentire.
Il
secondo fattore è il ruolo della ricerca di base. Quella che, sulla base della
curiosità degli scienziati, cerca di rispondere alle domande fondamentali. Come
aveva ben compreso Vannevar Bush, l’uomo che alla fine della seconda guerra
mondiale ha avviato la politica della ricerca degli Stati Uniti e non solo,
questa ricerca è il vero motore di tutto: della scienza come produttrice di
nuova conoscenza e della scienza come produttrice di innovazione tecnologica.
Se dimentichiamo la scienza di base, la scienza stessa può essere dimenticata.
È già avvenuto in passato con una scienza, quella ellenistica – di Archimede,
di Euclide e di tantissimi altri fino a Ipazia – che curiosamente Corbellini
non cita e che fu “dimenticata” dai Romani (si veda il libro di Lucio Russo
intitolato, appunto, La rivoluzione
dimenticata).
La
scienza per navigare contro la corrente del senso comune e per rispondere alla
curiosità di chi la pratica deve godere di una condizione particolare: la
libertà. Corbellini sostiene, in questo come in altri libri, che la scienza si
sviluppa solo in società in cui ci sono condizioni, per così dire, di libertà
generali: libertà religiosa, libertà politica e libertà economica. Anzi, si
spinge oltre, in una tesi che egli stesso definisce forte: la tesi secondo la quale la scienza è
coessenziale ai principi liberaldemocratici ed è il software dell’economia di
mercato.
A noi sembra – ma la questione va certo indagata – che la scienza abbia bisogno di una libertà, per così dire, locale. Ovvero che alla comunità scientifica sia assicurata una condizione di libertà, anche a prescindere dal contorno. E, infatti, società autoritarie – si pensi proprio all’Egitto di Tolomeo del II secolo a.C. – e/o senza libero mercato – si pensi all’Unione Sovietica di qualche decennio fa – hanno prodotto buona scienza, quando hanno lasciato una certa autonomia alla comunità scientifica e hanno evocato una forte domanda di innovazione tecnologica. Questo è però un problema che andrebbe affrontato in un’altra occasione.
Di
certo la scienza è portatrice di valori suoi propri. Che sono, questi sì,
valori democratici. Il sociologo Robert Merton li ha sintetizzati nell’acronimo
CUDOS (comunitarismo; universalismo, disinteresse, originalità, scetticismo
sistematico). Questi valori regolano il funzionamento interno della comunità
scientifica. In particolare della comunità scientifica che può attingere a
fondi pubblici. Nella comunità scientifica che lavora con fondi privati alcuni
di questi valori sono fortemente erosi. Non a caso il fisico John Ziman, teorico
della cosiddetta scienza post-accademica, parla di una nuova griglia valoriale
che, in quei laboratori, entra in conflitto (ma non sostituisce del tutto) con
la griglia mertoniana.
In
ogni caso, ha ragione Corbellini, la scienza è fallibile. Lo è intrinsecamente,
in sé. Nella ricerca di nuova conoscenza si può sbagliare. Tuttavia
nessun’altra attività umana ha in sé un motore potente, e questo sì intrinseco,
di autocorrezione. La comunità scientifica si è organizzata in maniera tale che
gli errori sono scoperti con una certa sistematicità ed efficienza e vengono
emendati. L’errore, si potrebbe provare, è un fattore coessenziale
dell’epistemologia scientifica: riguarda il modo di produrre nuova conoscenza.
Tuttavia
gli scienziati non sono degli imbroglioni. Anzi, è stato verificato
empiricamente, hanno un tasso di onestà superiore a quello medio della società
in cui operano. Degli scienziati ci si può fidare. Più di loro che di altri.
Da
questo punto di vista Corbellini appare un po’ troppo pessimista, quando
sostiene che nelle società che più hanno avuto dalla scienza, le società
occidentali, c’è una infondata sfiducia verso la scienza. Questa sfiducia
esiste in molte componenti delle nostre società, ma in fondo sia in Europa che
in America del Nord gli scienziati sono le figure sociali che da decenni sono
in testa alla classifica delle persone ritenute più affidabili.
Scienza e società, dialogo possibile?
Alla
luce di quanto detto, anche sulla vicenda – molto seria – dei diritti degli
animali è possibile (è necessario) stabilire un dialogo tra la comunità
scientifica e gruppi organizzati della
società. Ovviamente sulla base del reciproco rispetto e della esclusione di
ogni forma di violenza.
Può
la comunicazione della scienza favorire questo dialogo? Pro-Test Italia ritiene
di sì e per questo propone domani la sua L’Italia
unita per la corretta informazione scientifica.
Il tema è, tuttavia, complicato e non sempre la comunicazione della scienza, anche quando
è corretta produce, per dirla con Gilberto Corbellini, gli «effetti generali auspicati».
I motivi sono diversi. Intanto perché la comunicazione produce i suoi effetti
non sempre in maniera diretta e lineare. Dunque chi si aspetta che
un’operazione di corretta (ma occorrerebbe definire cosa si intende per
corretta) alfabetizzazione scientifica produca in maniera diretta un incremento
della fiducia nella comunità scientifica pecca di ingenuità. I comportamenti
degli uomini non sono frutto solo di conoscenza analitica, ma anche di una
serie di altri fattori culturali e ambientali.
Tuttavia
non è vero neppure il contrario: la comunicazione della scienza non è inutile.
Anzi, è tanto più utile quando è improntata al dialogo (tra cittadini, comunità
scientifica e istituzioni politiche) e alla compartecipazione alle scelte.
Ecco, questo della compartecipazione è un bisogno emergente nella società della conoscenza. Non significa far partecipare i non esperti alla definizione dei progetti di ricerca – anche perché, come rileva Corbellini, la scienza non va dove le persone che la fanno desiderano, ma «trova quel che c’è» a prescindere dai desideri dei ricercatori e dei politici. Significa però far compartecipare i non esperti con modalità democratiche diverse – di democrazia rappresentativa e diretta, ma soprattutto deliberativa – alla scelte di politica della scienza e della tecnologia.
È
una strada stretta. Difficile. Ma che non ha alternative.
È
una strada che prevede anche una cultura scientifica sempre più densa e matura.
Gilberto Corbellini chiude il suo libro con una bella citazione di James Flynn, psicologo e filosofo: «È un privilegio essere una persona alfabetizzata in un’età scientifica». Potremmo (dovremmo) estendere questa definizione affinché tutti possano dire: «È un privilegio vivere nella società, democratica, della conoscenza».