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Prima di prendere posizione, bisogna imparare a ragionare

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Attenzione a non farsi trarre in inganno dalle apparenze: titolo e sottotitolo, insieme con il pugno chiuso che troneggia in copertina, evocano la prospettiva di un saggio un po’ polveroso, probabilmente intriso di ideologie che ai più appaiono ormai superate. Poi si comincia a sfogliare l’introduzione dell’ultimo libro di Giovanni Boniolo e ci si ritrova incollati alle pagine, attirati subito dal tono brillante, a tratti quasi scanzonato, che tradisce l’anima veneta, per quanto ormai trapiantata a Milano, del filosofo della scienza e bioeticista, docente di logica e filosofia all’Università di Milano e direttore del dottorato internazionale in Foundations of the life sciences and their ethical consequences presso la Scuola europea di medicina molecolare.

Un tono e un linguaggio accattivanti che nulla tolgono alla serietà e alla profondità dei ragionamenti con cui Boniolo si propone di spiegare «un’idea; ma una sola, ci mancherebbe: non vorrei mai urtare la sensibilità di persone come quel mio vecchio professore al primo anno di filosofia che mi rimproverò dicendomi: “Non vorrai avere un’idea, tu che sei così giovane, quando io nella mia carriera non ne ho mai avuto una”». E l’idea è che la cosiddetta «democrazia deliberativa», che mette al centro la partecipazione diretta dei cittadini, tanto di moda di questi tempi, non può esistere fino a quando i cittadini stessi non impareranno come deliberare.

In merito ai temi etici sollevati dalle conquiste della biologia e della medicina, in particolare, occorrerebbe saperne «abbastanza di biomedicina per non dire stupidaggini scientifiche; sapere abbastanza di etica…per non dire stupidaggini filosofiche, sapere abbastanza di come svolgere un argomento per non parlare a vuoto».

Il quadro dei dibattiti pubblici a cui tocca di solito assistere in Italia è in effetti sconsolante, per l’assoluta incompetenza dei presunti esperti chiamati a dare ragione dell’una o dell’altra posizione su temi controversi. Lo dice Boniolo da un punto di vista laico, ma lo stesso vale per i cattolici che vorrebbero veder difese con competenza e buon senso posizioni talvolta radicalmente opposte. Capita invece che, in occasione della prima Giornata degli stati vegetativi, in un articolo di fondo sulla prima pagina del Corriere della sera si attribuisca a Giovanni Paolo II la Humanae vitae di Paolo VI, promulgata dieci anni prima che Wojtyla diventasse papa.

Ma torniamo a Boniolo e alla sua lettura della democrazia deliberativa. Fin dalle prime pagine il filosofo della scienza smonta ogni possibile retorica sul concetto di democrazia, con un elenco di citazioni sarcastiche e un po’ dissacranti, e mette le mani avanti: la sua visione potrà apparire elitaria, ma così non è, dal momento che chiunque potrebbe far parte di questa presunta élite, se avesse voglia di studiare e approfondire. Perché di certi temi, che toccano al cuore la vita e la morte, non si può parlare a vanvera, senza cognizione di causa, se non al bar, così come non si possono confondere i propri pregiudizi morali con posizioni etiche argomentate. E qui casca l’asino, perché pochi sono, o meglio siamo, capaci di distinguere tra i due piani.

Con la sua capacità di portare temi complessi alla portata di tutti, Boniolo riesce a prendere per mano il lettore e accompagnarlo nel filo del suo discorso, incatenandone l’interesse tra aneddoti divertenti tratti dalla sua esperienza personale e citazioni dal mondo della lirica e dai Vangeli, da Gino Paoli ad Aristotele, da Umberto Eco a Sant’Ambrogio. Da bravo professore, però, alla fine di ogni capitolo ci riporta al punto, riassumendo i concetti fondamentali trattati nelle pagine precedenti, prima di consegnarci una ricchissima bibliografia.

Dagli ampi excursus storici alle riflessioni logiche, l’autore infine atterra su una paginetta di semplici regole per chi si trova a discutere e deliberare. Regole che andrebbero scritte a caratteri cubitali sulle pareti di Porta a Porta e Annozero, non fosse altro che per inserire nelle discussioni, se non il supporto di una logica stringente, almeno i desueti valori del galateo.

Roberta Villa


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La produzione di formaggio è tradizionalmente legata all’allevamento bovino, ma l’uso di batteri geneticamente modificati per produrre caglio ha ridotto in modo significativo la necessità di sacrificare vitelli. Le mucche, però, devono comunque essere ingravidate per la produzione di latte, con conseguente nascita dei vitelli: come si può ovviare? Una risposta è il latte "sintetico" (non propriamente coltivato), che, al di là dei vantaggi etici, ha anche un minor costo ambientale.

Per fare il formaggio ci vuole il latte (e il caglio). Per fare sia il latte che il caglio servono le vacche (e i vitelli). Cioè ci vuole una vitella di razza lattifera, allevata fino a raggiungere l’età riproduttiva, inseminata artificialmente appena possibile con il seme di un toro selezionato e successivamente “forzata”, cioè con periodi brevissimi tra una gravidanza e la successiva e tra una lattazione e l’altra, in modo da produrre più latte possibile per il maggior tempo possibile nell’arco dell’anno.