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Puntare a zero

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La Giornata contro l’AIDS che si celebra oggi in tutto il mondo porta con sé alcuni dati incoraggianti e un barlume di speranza per il futuro: lo slogan dell’iniziativa, Getting to zero, Arrivare a zero -- intendendo con questa cifra il numero di morti e di nuovi casi -- è un obiettivo ambizioso, forse irraggiungibile. L’epidemia sembra però finalmente su una china discendente: i 2,7 milioni di nuove persone contagiate dall’HIV e gli 1,8 milioni di malati deceduti nel 2010 sono ancora un’enormità, ma entrambi i dati sono in netto calo rispetto agli anni precedenti.

Se dei miglioramenti delle cure hanno usufruito soprattutto gli abitanti della parte ricca del mondo, anche nei Paesi in via di sviluppo, un tempo praticamente esclusi dai costosi farmaci che tengono a bada il virus, è migliorato l’accesso ai trattamenti, tanto che oggi li riceve circa la metà delle persone che ne hanno bisogno.

Anche sul fronte della ricerca, comunque, non ci si ferma: la prospettiva di un vaccino ancora non si riesce a concretizzare all’orizzonte, ma i ricercatori non escludono di poter curare definitivamente la malattia, che per ora è resa meno letale, e cronicizzata, dagli antiretrovirali, ma mai eliminata del tutto.

Le nuove linee di ricerca partono da quello che è stato ribattezzato “caso di Berlino”. La storia è nota, ma è bene ricordarla perché è su questo singolo episodio, che per ora resta purtroppo isolato, che si basano le speranze di una cura definitiva per la malattia. L’unica persona infatti in cui è stato finora possibile estirpare completamente l’infezione è un americano, Timothy Brown, malato di AIDS, che tra il 2007 e il 2008, mentre viveva in Germania, ricevette due trapianti di midollo osseo per curare la leucemia che lo aveva colpito.

Nella sfortuna di dover essere sottoposto a trattamenti così impegnativi nelle sue già precarie condizioni di salute, a Brown capitò per sorte di ricevere le cellule staminali destinate a ricostituire il suo sistema immunitario da un donatore portatore di una particolare mutazione. La delezione delta 32 del gene CCR5, che di per sé non provoca nessun deficit o disturbo, e di solito passa del tutto inosservata, conferisce infatti a chi è omozigote (l’1 per cento della popolazione europea, l’unica ad averla) una resistenza quasi assoluta al contagio da parte dell’HIV. Negli eterozigoti – il 14 per cento circa dei caucasici – la mutazione può invece determinare un andamento più lento della malattia. La proteina prodotta dal gene colpito, CCR5, espressa sulla superficie di diversi tipi di cellule del sistema immunitario, rappresenta infatti la principale porta d’ingresso del virus nei linfociti T.

Brown così, per un tipico caso di serendipità, è stato completamente guarito. Ma come estendere ad altri la sua fortuna? Già è difficile trovare un midollo compatibile per un trapianto, scovarne uno tra i pochi omozigoti per il gene è davvero una missione impossibile. Così come è impensabile, in termini pratici, di costi e di rischi, pensare che un trattamento impegnativo come un trapianto di midollo si possa applicare a una popolazione tanto vasta come quella dei malati di AIDS.

D’altra parte molti ritengono non sia sostenibile neppure il trattamento cronico per decenni con gli antivirali di decine di milioni di malati di AIDS in tutto il mondo. Una cura definitiva, quindi, va assolutamente trovata.

Per il National Institute of Allergy and Infectious Diseases statunitense è una priorità assoluta, tanto che ha già stanziato 70 milioni di dollari per sostenere per cinque anni il lavoro di tre gruppi di ricerca mentre altre decine di milioni di dollari sono già stati investiti questo scopo da altre istituzioni pubbliche e aziende come Merck, Gilead Sciences, Calimmune e Sangamo BioSciences.

Quest’ultima, in particolare, ha messo a punto e già sperimentato una forma di terapia genica che mira a neutralizzare l’azione di CCR5: i linfociti del paziente vengono prelevati, indotti a produrre zinc-finger nucleasis, enzimi capaci di eliminare il gene che codifica per la proteina di membrana, e poi reinfusi nel paziente.

Dei sei malati sottoposti al trattamento solo uno ha risposto bene, tanto da essere riuscito, per quanto in maniera transitoria, a tenere a bada l’infezione senza antiretrovirali per alcune settimane. «Il successo è da ricondurre probabilmente al fatto che il paziente di Trenton, così si fa chiamare per conservare l’anonimato, era già di per sé eterozigote per la mutazione, per cui la terapia genica è riuscita a portare fino a una percentuale del 13,5 per cento, il doppio rispetto agli altri pazienti trattati, il tasso di linfociti CD4 omozigoti per la mutazione» ipotizza Pablo Tebas, dell’Università della Pennsylvania, che ha partecipato alla ricerca.

La stragrande maggioranza delle cellule restava in ogni caso suscettibile all’infezione, il che fa pensare che forse potrebbe bastare preservare un 10 per cento circa di linfociti CD4 resistenti al virus per combatterlo efficacemente.

Mentre i ricercatori che hanno presentato a settembre questi risultati all’Interscience Conference on Antimicrobial Agents and Chemotherapy, si ingegnano per cercare di superare questa soglia in altri pazienti, altri gruppi dell’Università della California e di Calimmune stanno cercando di disattivare il gene CCR5 nelle cellule staminali del sangue, sperando che così la trasformazione si possa estendere a tutto il sistema immunitario.

«Non si può pensare che approcci personalizzati e così impegnativi da richiedere l’ingegneria genetica si possano applicare su scala globale» obietta Robert Siliciano, docente di medicina alla Johns Hopkins University, che come altri colleghi di tutto il mondo è impegnato piuttosto a stanare il virus dai nascondigli in cui si rifugia sotto l’effetto della terapia.

Un candidato a questo scopo, insieme ad altri in studio anche in Italia, è il vorinostat, un antitumorale usato contro alcuni tipi di linfomi: uno tra i tanti esempi di quel riciclaggio e scambio di farmaci, particolarmente attivo tra ricercatori sul cancro e sull’AIDS, che in tempi di crisi permetterà forse, come ha auspicato qualche mese fa Francis Collins, direttore dei National Institutes of Health statunitensi, di portare in clinica novità significative nonostante l’inevitabile scarsità di fondi, riducendo in più i rischi di cattive sorprese al momento dell’immissione sul mercato di sostanze nuove e sperimentate su un numero limitato di persone.

Un rischio che non si corre con la scoperta italiana che un antimalarico stranoto e a basso prezzo come l’idrossiclorochina potrebbe recare benefici ai malati di AIDS. Con questo vecchio medicinale, facilmente reperibile anche nelle zone del mondo in cui l’HIV miete più vittime, Mario Clerici, dell’Università di Milano, ha ristabilito i livelli di CD4 in una ventina di pazienti in cui la terapia antivirale non era riuscita nell’intento, un parametro questo determinante ai fini della loro sopravvivenza. 

 

New York Times 29 novembre 2011


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