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Quale cura per l'università malata?

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Quello dell'Università rappresenta un tema centrale per il futuro del nostro Paese, dal punto di vista sia della formazione sia della ricerca scientifica. Perché, anche se non è l'unico luogo dove si fa ricerca scientifica, l'Università è una delle componenti essenziali del sistema ricerca e di formazione dei ricercatori. E rappresenta un tassello fondamentale della società della conoscenza. Purtroppo, quella italiana è un'Università malata, riconosciuta come tale anche all'estero e ormai divenuta oggetto di un discredito che va a volte al di là delle sue colpe.

Su questo tema cruciale svilupperemo quindi una serie di contributi, analisi e riflessioni da punti di vista differenti e con opinioni diverse, come è costume de La Scienza in Rete. Focus di questo primo intervento, la dimensione internazionale. La mancata internazionalizzazione dell'Università italiana è un problema da non sottovalutare, poiché gli scambi culturali costituiscono l'essenza stessa del progresso della scienza e della ricerca. La mancata internazionalizzazione del nostro sistema costituisce dunque da una parte la spia dell'arretratezza della ricerca biomedica italiana, inclusa la sua componente universitaria, ma ne è al tempo stesso concausa.

I numeri della mancata internazionalizzazione sono noti (e sono presentati nei grafici). A livello di istruzione terziaria, in quanto ad attrattività nei confronti degli studenti stranieri l'Italia è il fanalino di coda in Europa (vedi Tabella). Nei dottorati di ricerca (PhD) la percentuale di studenti stranieri presenti nel nostro paese è pari al 2%, contro il 35% del Regno Unito, l'11% della Spagna, il 6% del Portogallo e il 26% degli USA (fonte Commissione Europea 2003). Questi numeri si riflettono anche in un basso numero di giovani ricercatori stranieri presenti in Italia: l'1,4% contro il 15% del Regno Unito e l'11% del Belgio.

In quella che correttamente andrebbe definita "guerra dei cervelli", mancata internazionalizzazione significa 34.4700 scienziati in uscita contro 3.300 in entrata (fonte Commissione Europea).

Internazionalizzazione significa anche competitività e capacità di ottenere finanziamenti esteri su specifici progetti: un elemento, questo, che rappresenta un segnale dello stato di salute di un sistema di ricerca. I risultati dei bandi 2008 dell'European Research Council (ERC) e dell andamento del progetto FP7 (Commissione Europea) lasciano pochi dubbi: in quanto a studi finanziati il nostro Paese è stato surclassato dai maggiori competitors del vecchio continente (Francia, Inghilterra, Germania), ha di poco superato la Spagna ma è nettamente inferiore all'Olanda. I giovani italiani finanziati dal bando ERC sono stati 38: il doppio degli spagnoli, secondi solo ai tedeschi (40). Tuttavia solo 22 di loro condurranno le proprie ricerche in Italia. Un dato di per sé non negativo se il nostro sistema fosse attraente e aperto: invece, solo 4 giovani scienziati stranieri svolgeranno i propri studi in Italia. Il nostro paese, insomma, si conferma un ottimo produttore di cervelli, ma incapace di valorizzarli e di attrarne dall'estero. A completare il quadro negativo, meno della metà dei nostri programmi di ricerca finanziati è di matrice primariamente universitaria. Ciò a testimonianza della grave situazione di crisi che sta attraversando il nostro sistema accademico.

Una situazione ugualmente grave si osserva quando si guardano i dati parziali di successo italiano nei progetti europei del "VII programma quadro". E' importante notare come, a fronte di aree che si mantengono competitive, come la fisica, a livello delle scienze umane l'Italia è scarsamente concorrenziale. Un dato, questo, particolarmente allarmante data la tradizione del Paese nella formazione umanistica, che caratterizza anche tutti i curricola scolastici (compreso il liceo cosiddetto scientifico).

Se questo è il quadro, è logico chiedersi quali potrebbero essere i rimedi. Dalla rigidità del sistema alle tesi scientifiche fatte in italiano, dagli stipendi ai contratti e alle borse di dottorato, inadeguate agli standard internazionali: sarebbe facile fare un lungo elenco di cose da cambiare, grandi e piccole. Preferisco invece soffermarmi su un solo rimedio, attuabile come primo, da subito e a costo zero: semplificare le procedure di accoglienza per i candidati PhD students e post doc provenienti dall'estero, sia dalla Comunità Europea sia extracomunitari. Queste procedure sono macchinose, incomprensibili per gli stranieri e spesso perfino umilianti. Agli annunci di riforma e di corsie preferenziali non è seguito nulla di concreto. Fin troppo facile sostenere questa affermazione con una lunga serie di aneddoti di vita vissuta da scienziati che sono venuti a formarsi o a lavorare presso il Centro di Ricerca di Humanitas, che ospita studenti stranieri a diversi livelli, dal visiting professor ai summer students. Agli annunci di riforma delle procedure e di corsie preferenziali non è seguito nulla di concreto.

Personalmente sono convinto che se i sistemi di formazione superiore - in particolare l'Università - e di ricerca del paese vogliono essere competitivi in quella che è una vera e propria "guerra per i cervelli", dobbiamo richiedere con forza un percorso ad hoc per gli stranieri che vengono a formarsi o a fare ricerca in Italia, così da rendere il nostro Paese attraente per ricercatori  italiani e stranieri. In attesa di riforme radicali, credo che creare condizioni favorevoli per l'arrivo di giovani cervelli sia una priorità imprescindibile per immettere linfa nuova nel sistema di ricerca e di formazione del nostro Paese.

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