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Ricordare Fukushima

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In questi giorni si scrive molto per ricordare che sono passati 10 anni dall’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. Pochi noteranno che è anche un altro anniversario: 6 mesi dal disastro di Fukushima, verificatosi l’11 marzo scorso. L’11 del mese, evidentemente, non è un giorno favorevole.

Qualcuno subito obietterà che non c’è confronto fra i due disastri: 2977 vittime nel primo, zero nel secondo. Ma val la pena, ugualmente, ricordare anche il disastro di Fukushima: ha cambiato la vita di almeno 80 mila persone che hanno dovuto abbandonare casa e lavoro, ha messo in ansia tutto il mondo, ha avuto e continuerà ad avere un forte impatto sull’economia. Val la pena ricordare Fukushima anche perché può e deve farci riflettere.

Anzitutto sul fatto che, non potendosi prevedere l'imprevedibile, la sicurezza assoluta non esiste; mai. Ovvio, direte. Eppure in Giappone, col passare degli anni, forti pressioni del governo e costosissime campagne pubblicitarie delle compagnie elettriche avevano costruito il mito del <nucleare sicuro>. Libri di testo, centri di pubbliche relazioni, parchi tematici rivolti particolarmente ai bambini dove il nucleare è descritto come il paese delle meraviglie di Alice avevano inculcato l'idea che l’energia nucleare era non solo necessaria, ma anche assolutamente sicura. Così è accaduto che in un paese dove le auto con appena tre anni sono sottoposte a minuziose revisioni per poter circolare, reattori nucleari vecchi di decenni erano controllati solo da chi non aveva nessun interesse a fermarli. Il mito del nucleare sicuro ha poi finito per imprigionare gli stessi addetti ai lavori. Ad esempio, nonostante il Giappone sia uno dei paesi più avanzati nel campo della robotica, non era mai stato considerato necessario lo sviluppo di robot da utilizzare in caso di incidente nucleare: semplicemente perché non era possibile che potesse succedere. Se si vuole aumentare la sicurezza di un sistema, bisogna aumentarne la complessità e quindi moltiplicare i costi. Oggi il nucleare per sopravvivere ha sempre più bisogno di sicurezza, e quindi è fuori mercato. Per sottolineare la fragilità della complessa tecnologia nucleare, si può ricordare un episodio curioso. Nel luglio 2011 quattro reattori nucleari in Israele, Giappone e Scozia hanno dovuto arrestare la produzione a causa di un blocco nel circuito di raffreddamento causato da un'invasione di meduse.

Fukushima ha confermato che un incidente nucleare grave, a differenza di qualsiasi altro tipo di incidente, non è delimitabile né nello spazio né nel tempo. La radioattività, infatti, si trasmette attraverso l'atmosfera, che non è sotto nostro controllo, e può compromettere l'uso di un territorio per migliaia di anni. Proprio per queste caratteristiche nessuna assicurazione copre i danni causati da un grave incidente nucleare e neppure un governo può farvi fronte facilmente. Una stima provvisoria dei danni causati dall’incidente di Fukushima si aggira sui 100-200 miliardi di euro. Dicono che si dovrà aspettare la primavera per avere cifre più precise. Io penso che in realtà si dovranno aspettare molti decenni, perché gran parte del danno ricadrà sulle prossime generazioni .

E’ di questi giorni la notizia che la Tepco, con fondi concessi dal governo, sta incominciando a pagare i danni causati all’agricoltura, all’industria, alla pesca e al turismo. Si è stabilito anche di dare, alle persone che hanno subito uno stress psicologico per l’incidente, 100.000 yen (circa 900 euro) per sei mesi, poi la metà per altri sei mesi. Ma queste persone  saranno per sempre tormentate dalla preoccupazione di aver assorbito una dose di radiazioni sufficiente a compromettere la loro salute, e quindi di avere in corpo una specie di bomba ad orologeria. Per questo, come è già avvenuto a Chernobyl, gli evacuati saranno facili prede di sindromi depressive che possono portare a maggiore vulnerabilità ad altre malattie, all’alcolismo e anche al suicidio. Non contribuisce a stare tranquilli la recentissima notizia che in  tre quarti delle scuole della città di Fukushima, a 50 km dalla centrale, il livello di radioattività è superiore al limite fissato per gli addetti agli impianti nucleari.

Fukushima ci ricorda che un incidente nucleare grave è fuori controllo anche in un paese ben organizzato e tecnologicamente avanzato come il Giappone. Sono gli enormi interessi economici e politici coinvolti nel nucleare che impediscono una gestione trasparente degli incidenti, per cui non ci si può fidare di quello che viene comunicato dalle compagnie che gestiscono le centrali e neppure dai governi. La Tepco, già nota per avere contraffatto in passato i dati sulla sicurezza delle sue centrali, non godeva stima presso il governo che a fatica è riuscito a prendere in mano la situazione solo alcuni giorni dopo l'incidente. A sua volta il governo non ha consultato l'apposita unità di crisi e non si è servito dei dati raccolti da una pur esistente rete nazionale di dosimetri. I dati più precisi li avevano gli americani, che controllano costantemente le attività nucleari della vicina Corea del Nord mediante satelliti. Avevano offerto fin dall’inizio aerei senza pilota per sorvegliare la zona del disastro e un team di esperti, ma il governo nipponico inizialmente non ha voluto accettare. Dal canto suo l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica  (IAEA) non ha fatto certamente una bella figura: è riuscita ad inviare un suo gruppo di esperti in Giappone solo due mesi e dieci giorni dopo l'incidente. Attualmente nel luogo del disastro i tecnici non sanno da che parte incominciare. La cosa più urgente sarebbe evitare che le 110.000 tonnellate di acqua altamente radiativa, contenuta nei locali più bassi, vada a finire nel mare. L'unica decisione a cui sono giunti sembra sia quella di costruire (in 2 anni!) un muro di metallo lungo 800 metri davanti agli edifici dei quattro reattori. Il fatto è che i reattori danneggiati sono diventati un'immensa e pericolosissima scoria radioattiva. Si finirà col "tombarli" (parola tecnica usata dalla IAEA), come si sta ancora tentando di fare a Chernobyl.

Fukushima ci ricorda anche che lo sviluppo ulteriore della tecnologia nucleare è pericoloso e assieme molto esposto a rischi economici. Gli esperti americani del MIT hanno sempre sostenuto che riciclare il combustibile esausto non è conveniente dal punto di vista economico ed è molto pericoloso perché facilita la proliferazione di armi nucleari. Nonostante questo autorevole parere, Francia e Gran Bretagna hanno costruito impianti di riciclo. Il reattore numero 3 di Fukushima era alimentato in parte con Mox, una miscela di uranio e plutonio, molto più pericoloso dell'uranio, ottenuto, appunto, riciclando in Gran Bretagna e Francia il combustibile esausto. Prima del disastro di Fukushima il Giappone, che non ha miniere di uranio, aveva in progetto di estendere l’uso del Mox per alimentare anche altre centrali; per questo aveva preso accordi con Francia e Gran Bretagna per mandar loro quantità sempre maggiori di combustibile esausto e ricevere indietro, sia pure a caro prezzo, Mox. Ora che il Giappone ha rinunciato ai piani di estendere l'uso del Mox ai suoi reattori, e così hanno fatto anche altre nazioni, Francia e Gran Bretagna, che contavano di lucrare sulla produzione di Mox, si trovano in grande difficoltà economica. In particolare, la Gran Bretagna ad agosto ha deciso di chiudere un impianto per produrre Mox che è costato 2 miliardi di euro e ha rinunciato al piano di costruirne un altro. Uno dei tanti messaggi segreti, che oggi è di moda svelare, dell'ambasciata americana a Londra parla a questo proposito del più imbarazzante disastro economico della storia industriale inglese.

Personalmente, come discusso in dettaglio altrove (N. Armaroli, V. Balzani: Energia per l'Astronave Terra , Zanichelli, II edizione aggiornata ed ampliata, in uscita a ottobre), credo che ci siano motivi ancora più seri di quello della sicurezza per abbandonare l'avventura del nucleare. In ogni caso, riflettere sul disastro di Fukushima non è un esercizio inutile.


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