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La riforma dell'università e i giovani ricercatori

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Approvato dal Consiglio dei Ministri in data 28 ottobre 2009, il disegno di legge “in materia di organizzazione e qualità del sistema universitario, di personale accademico e di diritto allo studio”, è passato al Parlamento che, ora in Commissione, dovrà discuterlo e poi approvare la nuova riforma dell’Università.

Non vi è dubbio che in questo disegno di legge vi siano molte proposte positive, come il controllo e valutazione della qualità della ricerca e didattica universitaria, che ci si aspetta possa far risaltare le Università eccellenti del nostro Paese. Ma ve ne sono altre meno rassicuranti. Per esempio, è preoccupante  la condizione spesso ripetuta che questa riforma non debba costare nulla, anzi che porti a una diminuzione dei costi. E’ difficile fare una riforma senza costi. C’è anche un aspetto poco chiaro per quanto riguarda le conseguenze dell’affidamento della gestione delle Università a persone esterne all’Università. Si capisce poco l’autonomia universitaria.

Qui però vorrei discutere due questioni che sono cruciali per il futuro dell’Università:  il nuovo sistema di reclutamento previsto nella riforma e il problema dei giovani ricercatori precari.

Allo scopo di eliminare i clientelismi e localismi, la riforma prevede un’abilitazione nazionale, e questo è  senz’altro un progresso rispetto ai concorsi nazionali e locali passati, in cui non sempre il merito ha fatto da guida.

Nel caso dei concorsi nazionali, essi erano sostanzialmente gestiti dai gruppi scientifici più numerosi,  che erano in grado di fare eleggere i commissari nei concorsi. Candidati dei gruppi minoritari,  anche se eccellenti, avevano pochissime chance di superare un concorso per ordinario in alcuni raggruppamenti.  Invece era molto più facile che superasse il concorso un candidato modesto che si occupava di discipline dei gruppi prevalenti. Inoltre erano penalizzate le piccole Università, che non avevano gruppi abbastanza numerosi da poter decidere i commissari che potessero tener conto delle loro esigenze.

Il passaggio ai concorsi locali fu dovuto proprio a queste anomalie - a questa gestione proprietaria - dei concorsi nazionali. Ciò ha  senz’altro provincializzato i concorsi e spesso anche le Università, creando a volte un minor stimolo al duro lavoro della ricerca e alla competizione scientifica.

Bisogna evitare che simili anomalie si verifichino nel caso dell’abilitazione nazionale prevista nella nuova legge. A rigore, se ci sarà, come previsto, un controllo serio della qualità della ricerca e della didattica e un finanziamento rapportato alla valutazione, non sarebbe richiesta neppure l’abilitazione nazionale. L’Università di Harvard non ha bisogno, per l’assunzione dei propri professori, di un’abilitazione nazionale da parte dello Stato del Massachusetts.

Bisogna trovare in ogni caso un modo per evitare che i gruppi scientifici numerosi condizionino le abilitazioni e impediscano alle scienze emergenti di avere dignità nelle Università.

Veniamo ora al problema del reclutamento dei giovani ricercatori. La legge non precisa le prospettive concrete dei giovani, una volta che essi abbiano superato l’abilitazione nazionale, essendo queste legate ai bilanci delle singole Università e, con le riduzioni di finanziamenti in atto e previsti, non si può essere ottimisti. 

In ogni caso bisogna risolvere il transitorio, ovvero la situazione  drammatica in cui si trovano ora i titolari di assegni di ricerca  con molti anni di esperienza alle spalle, che vedono dileguarsi le speranze di una posizione stabile.

Non si può dire che la loro situazione sia legata al livello scadente della ricerca universitaria in cui sono stati inseriti in Italia. Tale livello è buono, con eccellenze, limitandosi al campo scientifico, nella Fisica, Astrofisica e Biologia, anche se non in tutte le Università. I nostri dottori di ricerca sono  apprezzati all’estero, ma svolgono attività di ricerca di punta anche in Italia.

Che cosa propone il Governo per questi numerosi assegnisti?  Molto poco: il ri-finanziamento, con ritardo, della legge Mussi del vecchio governo Prodi, che prevedeva 20 M€ nel 2007, 40 M€ nel 2008 e 80 M€ nel 2009. Solo la seconda trance (40 M€) è stata recentemente suddivisa tra le Università (Decreto Ministeriale del 24 novembre 2009 prot. n. 212/2009). Per dare un’idea, all’Università di Ferrara la cifra assegnata è sufficiente per l’assunzione di soli 7-8 ricercatori o, al più, del doppio, se c’è un cofinanziamento al 50%, dell’Università.

Il Governo destina invece 6 M€ allo scopo di richiamare i nostri giovani ricercatori all’estero offrendo loro  contratti a tempo determinato (D.M. n.45 del   23/9/2009). Questa è un’ottima cosa, ma tali iniziative sarebbe opportuno che vengano estese anche ai tanti post-doc assegnisti/ricercatori precari che lavorano in Italia e che contribuiscono in modo significativo  alle eccellenze della ricerca italiana. Per essi,  posizioni di ricercatore a tempo determinato, anche quelle che potrebbero essere finanziate con fondi di ricerca esterni, sono di fatto impedite. Infatti, essendo quasi tutte le Università, con i pesanti tagli governativi, al limite della cosiddetta "virtuosità", dando delle posizioni di ricercatori a tempo determinato, esse passerebbero dallo stato di  virtuose a quello di spendaccione, e quindi sarebbero penalizzate. Per cui anche un contratto di ricercatore a tempo determinato è una chimera per i ricercatori precari italiani.

Il problema delle esperienze all’estero è importante che venga approfondito. Se un’esperienza di ricerca all’estero è ritenuta fondamentale per poter avere la possibilità di un’assunzione nelle Università italiane (io sono molto favorevole), essa deve essere suggerita in modo chiaro come facente parte del percorso formativo. Ciò avviene, per esempio, in Olanda.

Ma come creare un bacino di posti di lavoro per i nostri ricercatori?  Occorre  incentivare la ricerca universitaria, quella negli Enti pubblici di ricerca pubblici, ma anche la ricerca privata e quella industriale. In tempi di crisi economica la ricerca è cruciale per uscirne. Questo lo hanno capito Paesi europei, come la Francia, con un piano di investimenti eccezionale anche per le Università.  Per esempio, in Francia non si paga l’IVA per le attrezzature di ricerca, mentre noi la paghiamo al tasso non trascurabile del 20%.

Per quanto riguarda le  piccole e medie imprese, un criterio dovrebbe essere il loro impegno nell’attività di ricerca. Ma, in generale per le imprese,  anche la quotazione in borsa dovrebbe essere condizionata da un livello minimo di attività di ricerca.

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