L’anno scorso Nature ha fatto un sano esame di coscienza, ammettendo che solo il 14 per cento dei suoi revisori e il 19 per cento degli esperti cui la redazione chiedeva commenti ed editoriali apparteneva al sesso femminile. Quest’anno la rivista è andata oltre, dedicando alla discriminazione di genere nel mondo della scienza un intero speciale. Punto di partenza i dati, illustrati da grafici molto eloquenti, che mostrano quanto lento sia il cammino delle donne per ottenere diritti in teoria scontati e ormai ufficialmente accettati da tutti, almeno a parole: che a parità di competenze e pubblicazioni si raggiungano gli stessi livelli accademici, per esempio, o che a parità di mansione corrisponda uguale compenso.
I conti non tornano nel mondo della scienza
Purtroppo ancora oggi, negli avanzati Stati Uniti e ancora peggio in Europa, non è così. A conseguire un dottorato in campo scientifico o in ingegneria sono circa tanti uomini quante donne, ma appena si comincia a risalire la scala gerarchica la percentuale femminile va via via calando, scendendo oltreoceano al 21 per cento dei professori ordinari nelle discipline scientifiche e addirittura al 5 per cento di quelli di ingegneria. Uno studio condotto in Spagna mostra un quadro ancora più sconfortante: per un uomo è due volte e mezza più facile conquistare una cattedra rispetto a una donna che abbia la stessa età, mostri la stessa esperienza e abbia pubblicato altrettanti lavori di pari qualità.
In Italia, si sa, le cose non vanno meglio. «La metà degli iscritti alle facoltà scientifiche sono donne e tra chi intraprende la carriera di ricercatore si arriva addirittura al 60 per cento. E le giovani sono brave, con un tasso di produttività scientifica mediamente più elevato di quello dei colleghi maschi» ha dichiarato Elisabetta Dejana, direttore del programma di ricerca sull’angiogenesi all’IFOM, Istituto FIRC di oncologia molecolare di Milano, in un fascicolo che l’anno scorso AIRC, in occasione della Giornata delle Azalee, ha dedicato a questo tema. «Il problema sta nella progressione di carriera: nelle posizioni apicali le donne sono ridotte al 15 per cento del totale; sono solo l’1 per cento tra i grandi manager dell’industria farmaceutica, il 16 per cento dei professori ordinari nell’università italiana e il 10 per cento tra i group leader del Consiglio nazionale delle ricerche, che rimane pur sempre la nostra massima istituzione scientifica. I rettori universitari donna sono solo due in tutto il Paese e gli stipendi delle scienziate sono mediamente più bassi di quelli degli uomini del 30 per cento. Si tratta di dati inequivocabili, di una fotografia della realtà che dovrebbe far riflettere».
Non è solo questione di asili nido
Le cause? In parte sono le stesse che ostacolano il raggiungimento di posizioni dominanti in altri campi della società, prima fra tutte la difficoltà di conciliare l’impegno della ricerca con quello di una famiglia. «Prima di cominciare a pensare ad avere figli, uomini e donne hanno le stesse probabilità di cambiare mestiere» dice Mary Ann Mason dell’Università della California, a Berkeley. «Il tasso di abbandono della carriera di ricercatore è del 20 per cento in entrambi i sessi. Ma le post doc che diventano mamme o programmano una gravidanza lasciano il laboratorio il doppio dei neo o aspiranti papà». L’alternativa sembra essere rinunciare alla famiglia, o in parte sacrificarla, come mostra il dato secondo cui i membri di facoltà come astronomia, fisica e biologia tendono ad avere in media meno figli dei colleghi maschi, e soprattutto meno di quelli che avrebbero desiderato.
La questione non è nuova e molte università e centri di ricerca hanno cercato soluzioni per andare incontro alle esigenze di maternità delle loro ricercatrici: l’IFOM di Milano per esempio ha istituito un laboratorio dove le donne in gravidanza possono continuare a lavorare in condizioni di assoluta sicurezza e ha stabilito una convenzione con un asilo nido a pochi metri di distanza dall’istituto che garantisce orari flessibili. Iniziative come queste tuttavia sono utili ma non bastano, perché il vero scoglio resta soprattutto culturale.
Discriminazioni dure a morire
Secondo gli esperti che hanno partecipato alla stesura dello speciale su Nature, la scarsità di donne ai più alti livelli alimenta un circolo vizioso, privando le giovani leve di modelli da seguire e minando la loro autostima, convincendole cioè che non è strada per loro. E vari studi confermano che perfino in questo settore teoricamente più avanzato della società le discriminazioni sono dure a morire. Quando a 127 docenti di biologia, fisica e chimica di sei università statunitensi è stato chiesto di esaminare i curriculum di due finti ricercatori che aspiravano al posto di direttore di laboratorio, bastava cambiare il nome in testa al documento, da Jennifer a John, perché al candidato venissero offerti 3730 dollari l’anno in più. L’esperimento rispecchia la realtà, ancor più che negli Stati Uniti nell’Unione europea, dove le scienziate impiegate nelle strutture pubbliche guadagnano in media dal 25 al 40 per cento in meno dei colleghi maschi.
Proposte di cambiamento
Il quadro dipinto dallo speciale di Nature è quindi a tinte fosche, anche se non trascura di raccontare le storie di molte donne che invece fortunatamente sempre più emergono nel mondo della ricerca. Anche in Italia il loro numero va pian piano aumentando, così come la loro visibilità, e molte di loro dimostrano con i fatti che anche la vita di laboratorio, come quella di fabbrica o di ufficio, si può conciliare con la realizzazione delle proprie aspirazioni personali. Per vincere le resistenze che ancora restano si avanzano diverse proposte, dall’adozione delle sempre invocate “quote rosa”, con tutti i loro pro e contro, alle iniziative di fondazioni come quella intitolata a Rita Levi Montalcini, che aiuta giovani donne africane a intraprendere la carriera della scienza. AcademiaNet è una piattaforma online che dà visibilità in rete alle ricercatrici, perché siano trovate più facilmente anche da chi organizza i convegni, dove la loro presenza è sempre minoritaria o dai giornalisti che cercano esperti da intervistare. E qualcuno arriva a proporre di boicottare i congressi che non diano spazio alle relatrici.