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RU486: storia di obiettori, politica ma soprattutto donne

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di MCS
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Non sarebbe stato un natale come tutti gli altri questo. Francesca l’aveva capito subito, dal ritardo ormai protrattosi per troppo tempo. Lei che, ritardataria cronica, aveva invece per compenso un ciclo mestruale preciso, sempre perfettamente in orario. Strano come la vita a volte sia piena di contraddizioni. Ma niente, stavolta proprio le sue cose non davano segni di vita. Nessun mal di pancia sospetto, nessun mal di denti, pelle perfetta e soprattutto umore stranamente tranquillo. A parte i tanti pensieri che cominciavano a passarle per la mente. Iniziava a essere preoccupata. Neanche l’ombra del suo solito isterismo pre-mestruale e nemmeno uno dei tanti sintomi che ogni volta le ricordano che è una donna e che di lì a poco, avrà perso l’occasione di diventare mamma anche questo mese. Certo nel suo futuro qualche bambino ci sarebbe stato, forse anche due o tre, e magari meglio se due maschi e una femmina. Ma adesso no. Insomma a 18 anni non si può. Si beh si potrebbe, ma non se hai voglia di fare ancora tante cose, troppe, che un bambino (forse) non permette di realizzare. Non se hai un ragazzo di 17 anni che ti ama, ma vive lontano, a Torino, e non sai se sarà al tuo fianco per tutta la vita. Non quando ancora non si è pronti. Forse la colpa era proprio della lontananza. Di questa stupenda storia d’amore nata in un estate come tante altre, quando si è liberi e spensierati e si pensa che i limiti non esistano. Che tutto quello che desideriamo, se vogliamo si può raggiungere. Così Torino-Macerata, se la si pensa in questi termini, non è poi una così grande distanza. A turno ogni due settimane si affrontava il viaggio, carichi d’amore e dalla voglia di rivedere l’altro, e poi tutto il resto non conta. Solo che l’alchimia della giovane età, la passione e la voglia di stare insieme dopo tanto tempo, a volte può essere pericolosa. Se non altro per chi, come Francesca, ancora di diventare mamma non se la sentiva.

Era il dicembre 2002. Mentre Silvio Viale, consigliere comunale dei verdi e ginecologo dell’ospedale Sant’Anna di Torino, portava avanti la crociata a favore dell’aborto farmacologico (iniziata nel novembre del 2000), la giovane Francesca si recava con il fidanzato all’ospedale di Macerata. Convinti ormai, dopo lunghe discussioni, che non era ancora tempo per loro di diventare genitori. E se non era stato facile capirlo, altrettanto difficile era (ed è tutt’ora) in Italia, mettere in pratica il diritto di non voler essere mamma. Oltre il fatto che l’aborto volontario in realtà non esiste. Per poter abortire Francesca aveva comunque bisogno di un certificato redatto da un medico, che giustificasse la sua decisione. “Solo in circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza comporterebbero un serio pericolo per la salute fisica o psichica della donna, si può procedere all’interruzione spontanea di gravidanza”. Altrimenti non è possibile. Questo dice la legge 194. Certo è ovvio che un medico abortista di fronte a una ragazza o donna che non se la sente di portare avanti la gravidanza, per uno o più motivi, scriverà un certificato medico in cui si attesta che la paziente ha chiare motivazione psicologiche per abortire. Ma è assurdo pensare che in un paese democratico come l’Italia, ancora negli anni 2000 bisogna mascherare l’aborto dietro una motivazione medica. Quasi che una donna non fosse in grado di scegliere di sua spontanea volontà se abortire o meno. I due ragazzi però non incontrarono nemmeno il primario del reparto di ginecologia dell’ospedale di Macerata. Cattolico e obiettore di coscienza, sicuramente avrebbe ostacolato la loro decisione fino a renderla impraticabile. Così gli aveva detto l’infermiera, consigliandogli in tutta onestà di recarsi altrove. Stai a vedere, però, che nella sfortuna di vivere una storia d’amore a distanza, la fortuna volle che proprio a Torino si trovava uno dei centri d’eccellenza, della ginecologia italiana, il Sant'Anna. Ancora una volta il treno, Torino, il suo amore. Quante volte quel viaggio, sempre uguale, sempre con le stesse fermate e gli stessi pensieri. Ma questa volta era diverso e da lì in poi, non sarebbe più stato lo stesso. Al Sant'Anna successe tutto anche troppo in fretta. Senza neanche avere il tempo di riflettere su quello che le stava accadendo. Non che volesse cambiare idea, ormai aveva deciso, ma certe cose vanno metabolizzate, ci vuole tempo per accettarle e forse anche qualcuno che ti stia vicino e ti rassicuri con due parole o tre, anche se è solo l’infermiera o il medico del reparto. Invece non va così. L’assistenza prima e dopo l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) non è prevista dalla legge italiana, e figurarsi se ci sono il tempo e le risorse (umane) per farlo. In Italia medici e infermieri hanno il diritto di decidere se praticare l’aborto o no, dichiarandosi obiettori di coscienza. Il numero molto alto di personale che si astiene da questa pratica, fa sì che molti ospedali, soprattutto nel sud Italia, non pratichino l’IGV e rimbalzino le donne che la vogliono fare, in quei pochi centri, come il Sant’Anna, dove il diritto ad abortire è assicurato. Anche all’interno di queste strutture poi, c’è chi si astiene, sovraccaricando di lavoro i medici e infermieri abortisti, che finiscono per fare solo quello, con ripercussioni anche sulla carriera. Questo è un motivo per cui molti medici si dichiarano obiettori. Nessuna scelta dettata dalla religione o etica, ma semplicemente evitano di farlo per non cadere intrappolati in questa rete, che gli precluderebbe ogni possibilità di avanzamento della loro professione. Così lo stato italiano e il sistema con il quale l’aborto è gestito, finiscono per premiare gli obiettori e penalizzare chi applica la legge italiana e assicura alle donne italiane il diritto sancito dalla legge 194. Di conseguenza però per il tempo e le risorse limitate, alle donne che decidono di abortire, non viene neanche dato il tempo di realizzare cosa le sa succedendo. I tempi sono stretti e l’intervento si effettua in day hospital. Tutto succede in 24 ore, o meno. Il giorno prima la preparazione per l’intervento, a casa, il giorno dopo anestesia totale o locale, raschiamento o aspirazione (metodo Karman) e dimissione. Può capitare che si abbiano forti crampi addominali o emorragie e si può chiedere di restare un altro giorno in ospedale o andare a casa in serata. Come è successo a Francesca. Ad ogni modo a quel punto il peggio è passato. Almeno questo credeva. Una volta deciso che fare e fatto l’intervento, doveva solo aspettare di riprendersi fisicamente e tutto sarebbe stato solo un ricordo. Ma abortire non è mai facile, neanche per la donna più convinta, e di questo si rese conto solo due anni dopo, quando fu costretta ad andare da uno psicologo per riprendersi completamente.

Questo perché l’aborto non è solo l’atto in sé, l’operazione chirurgica a cui una donna si sottomette per interrompere la gravidanza. E’ molto di più. E’ una decisione mai facile, dietro cui c’è sempre una forte motivazione o dei ragionamenti complessi. Non esiste un aborto facile o che sia reso più semplice dalla tecnica utilizzata. Sbaglia chi crede che l’aborto farmacologico semplificherebbe il tutto. Perché l’ostacolo maggiore non è l’operazione ma la decisione. Se una donna ha scelto di non portare avanti la gravidanza non sarà certo l’intervento chirurgico a fermarla. Lo dimostra il fatto che prima del 1978, quando ancora la legge 194 non esisteva, c’erano gli aborti clandestini, ed erano molti di più di quelli praticati adesso. Certo si può attribuire questa diminuzione anche alla maggior diffusione dei metodi contraccettivi che si è verificata negli ultimi decenni, ma sta di fatto che se una donna decideva di abortire, lo faceva. Anche rischiando la vita, come succedeva una volta. La legge 194/78 prevede tra le altre cose, “l’aggiornamento delle tecniche derivanti dai progressi della medicina”. Quindi l’aborto farmacologico e l’uso della pillola abortiva a base di mifepristone (la RU486), che è una tecnica molto meno invasiva e pericolosa per le donne, dovrebbe essere introdotta ovunque in Italia, per legge. Invece non va così. Anzi lo stato e le regioni italiane continuano a boicottarne l’utilizzo. Per la paura che questo metodo così semplice e poco invasivo possa rendere l’aborto più appetibile per le donne. In Europa e soprattutto in Francia dove la RU486 è nata, si fa uso di questa tecnica dal 1988 ed è tutt’oggi il metodo più utilizzato dai medici. Addirittura l’Organizzazione Mondiale della Sanità lo considera un metodo efficace e più sicuro di quello chirurgico. L’aborto farmacologico o medico è praticato entro 49 giorni (7 settimane) dall’inizio dell’ultimo flusso mestruale. Al contrario quello chirurgico (raschiamento o metodo Karman) per abitudine o metodi organizzativi non è mai praticato prima dell’ottava settimana e quasi sempre dopo la decima. Spesso però si cade negli ultimi 10 giorni (il limite ultimo per l’IVG è di 90 giorni), per via dei tempi d’attesa molto lunghi e del limitato numero di personale e di ospedali attivi. Con la conseguenza che più si va avanti con la gestazione, più complicazioni possono sorgere. Verso il 90esimo giorno l’embrione è lungo 15 cm, mentre entro il 49esimo giorno misura 1 cm. Nel caso dell’aborto farmacologico, al momento dell’espulsione, l’embrione è talmente piccolo da non poter essere distinto dal sangue mestruale e dai coaguli. Tant’è che negli Stati Uniti e anche in Francia e in Gran Bretagna l’aborto farmacologico avviene in day hospital. La prima pillola di mifepristone, che favorisce il distacco dell’embrione dalle pareti uterine, viene somministrata dal medico in ospedale, e dopo 24-48 ore la paziente si autosomministra, a casa, la seconda pillola di prostaglandina (misoprostol). L’aborto avviene dopo circa quattro ore e ha un’efficacia del 92-98%. Nei restanti casi la donna viene sottoposta ad un successivo intervento chirurgico, raramente perché non avviene l’espulsione, più spesso perché è incompleto o le perdite sono eccessive. Nella maggior parte dei paesi europei anche la somministrazione del misoprostol avviene in ospedale, ma nel tempo che intercorre fra una somministrazione e l’altra (anche due giorni) la paziente non è obbligata a stare in ospedale. In Italia invece sì. Stato e regioni hanno giocato sulla libera interpretazione dell’articolo 7 della legge 194/78, che dice “L’interruzione della gravidanza è praticata da un medico del servizio ostetrico-ginecologico ospedaliero presso un ospedale generale fra quelli indicati […]”. L'articolo voleva solo indicare che l’aborto debba essere effettuato da un medico presso un ospedale pubblico e non in una struttura privata. Non certo che l’aborto e l’espulsione dell’embrione debbano avvenire sotto osservazione medica in regime di ricovero. Molte donne quindi sono spinte a scegliere il metodo tradizionale chirurgico, semplicemente per una questione di tempi, perché non vogliono o non possono passare tre giorni in ospedale.

La RU486 arriva in Italia solo nel 2005, dietro pressione di Silvio Viale, che riesce ad ottenere il permesso per la sperimentazione delle pillola nel suo ospedale, il già citato Sant’Anna di Torino. Solo il 30 luglio del 2009 l’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) autorizza la commercializzazione in Italia della RU486: il farmaco deve essere dispensato in ospedale entro il 49 giorno di gravidanza, dopodiché aumentano i rischi rispetto l’aborto chirurgico. In un comunicato stampa del 19 ottobre dello stesso anno l’AIFA ribadisce che il farmaco ha superato uno scrupoloso iter di verifiche scientifiche, tecniche e legislative e che pertanto ne autorizza l’immissione in commercio. Per quanto riguarda il problema etico invece, rimanda a stato e regioni eventuali disposizioni per il corretto percorso di utilizzo clinico del farmaco, all’interno del servizio ospedaliero pubblico. Il trucco dell’ospedalizzazione dei 3 giorni è solo uno dei tanti escamotage che le regioni utilizzano per evitare la diffusione della pillola abortiva. Non è difficile immaginare che il percorso per chi sceglie l’aborto farmacologico sia pieno di insidie, rimandi e attese che finiscono per portare la donna dopo il 49esimo giorno, limite utile per praticare l’aborto farmacologico. Provando a fare due calcoli, una donna si accorge del ritardo solo dopo 28 giorni dall’ultimo ciclo mestruale. Aspetterà qualche giorno prima di comprare un test di gravidanza e magari passa un'altra settimana. Arriviamo a 35 giorni e bisogna ancora prenotare un appuntamento presso il consultorio o il ginecologo, pratica che può richiedere anche diverso tempo. Nel più fortunato dei casi, forse saremo intorno al 40esimo giorno. Rimangono appena 9 giorni, tenendo conto del fatto che, una volta in mano il certificato del medico che autorizza la donna ad abortire spontaneamente , per legge non lo potrà usare prima di sette giorni. Tempo destinato a un ulteriore riflessione. A quel punto, sperare di trovare un posto libero in corsia, e che sia di turno qualche ginecologo non obiettore è pressoché impossibile. Non dimentichiamo poi il terrorismo psicologico di questi anni, per cui alla RU486 è stato attribuito un tasso di mortalità 10 volte maggiore rispetto all'aborto chirurgico. Senza specificare però che si trattava di calcoli statisticamente non significativi perché, nel caso della RU486, basati su un campione troppo piccolo.

Eppure i vantaggi sono notevoli: comporta meno rischi per la donna, perché è possibile effettuarlo nelle prime settimana della gravidanza, al contrario di quello chirurgico che necessita che il feto sia più grande. E’ meno invasivo e non comporta l’uso dell’anestesia. Richiede un numero di risorse inferiori, meno medici, infermieri e posti letto in ospedale, riducendo i tempi di attesa e di conseguenza apporta dei vantaggi anche dal punto di vista economico. Responsabilizza chi abortisce, perché è la donna a somministrarsi la seconda pillola e non il medico. Nonostante tutto questo però in Italia l’uso della RU486 non è a regime. In alcune (poche) regioni, come la Toscana, L’Emilia Romagna, la Puglia e l’Umbria l’aborto farmacologico viene effettuato in day hospital, mentre per contro ce ne sono altre, come la Sardegna, la Calabria e L’Abruzzo, dove della RU486 non c’è stata traccia in questi anni. Nella altre regioni come il Piemonte governato dal legista Roberto Cota, o la Lombardia governata dal ciellino Roberto Formigoni, inutile dire che la guerra è sempre aperta.

Cristina Tognaccini


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