Il libro di Pietro Greco, I nipoti di Galileo (Dalai, 2011) - primo della collana Zenit del Gruppo 2003 - racconta come si può eccellere nella ricerca scientifica anche in Italia attraverso sette storie di scienziati: Alessio Figalli, dalla Normale agli USA; Lucia Votano e la via italiana alla fisica del futuro; Vincenzo Balzani e il sogno di imitare la fotosintesi delle piante; Bruno Siciliano e il futuro delle macchine che pensano; Giacomo Rizzolatti e la scoperta dei neuroni specchio; Pier Giuseppe Pelicci e la lotta contro il cancro e l'invecchiamento; Elena Cattaneo e le speranze delle staminali. Chiude le sette avvincenti storie il Manifesto del Gruppo 2003. Qui di seguito pubblichiamo l'introduzione al libro.
In Italia si fa poca ricerca scientifica. Ma quella che si fa ha solide tradizioni ed è, in media, di buon livello. In Italia ci sono poche risorse per la scienza. E non sempre queste risorse vengono distribuite sulla base del merito a chi saprebbe meglio farle fruttare. Ma la mancanza di risorse e dei giusti riconoscimenti non deprime la ricerca, al contrario aguzza l’ingegno di chi la svolge. "Poca, ma buona", verrebbe da dire. In Italia i ricercatori sono pochi, ma – al contrario di quanto dicono alcuni – tutt’altro che fannulloni. Lavorano molto e spesso molto bene. Producono articoli scientifici, risultati, scoperte, innovazioni assai apprezzati dai loro colleghi all’estero. "Pochi, ma bravi", verrebbe da dire.
Sono questi i due messaggi principali che vogliamo lanciare con questo libro. E non si tratta di messaggi marginali. Perché, se è vero che il nostro Paese vive un periodo di difficoltà, economica ma non solo, siamo anche convinti che questa difficoltà nasca dal fatto che il mondo è entrato in una nuova era – l’era della conoscenza – e l’Italia non se ne è accorta. Perché riteniamo che la comunità scientifica italiana non solo produce nuova conoscenza e, dunque, è naturaliter in sintonia con l’era della conoscenza, ma è tra le poche componenti della nostra società che si confronta ogni giorno con il resto del mondo, in una sana e solidale competizione, sulla base del merito e alle frontiere di avanguardia.
E', dunque, anche da lei, dalla comunità scientifica italiana, che possiamo e dobbiamo ripartire per invertire il percorso verso il declino e incamminarci lungo la strada del rilancio del Paese. Potremmo lanciarli, questi messaggi, semplicemente "facendo parlare i numeri". E i numeri, per la verità, parlano in maniera molto chiara. Da varie fonti internazionali risulta, infatti, che l’Italia, pur essendo settima al mondo per produzione di ricchezza, è undicesima per investimenti in ricerca (18,7 miliardi di dollari nel 2010, pari a poco più dell’1% del Prodotto interno lordo, secondo il R&D Magazine); è didicesima per numero di ricercatori (82.000 secondo gli esperti dell’OECD), ma è ottava al mondo per numero di articoli scientifici prodotti, settima per numero di citazioni ottenute dai suoi articoli scientifici e terza, dopo Svizzera e Olanda, per il numero di articoli scritti, in media, da un singolo ricercatore (secondo le classifiche di SCImago).
Con altri dati analoghi potremmo dimostrare che ci sono molti settori – in matematica, in fisica, in biomedicina – in cui i ricercatori italiani per quantità e, soprattutto, qualità risultano ai primissimi posti al mondo. Tutti questi numeri corroborano la tesi secondo cui la nostra ricerca è "poca, ma buona" e i nostri ricercatori sono "pochi, ma bravi". Che quando a un ricercatore italiano viene data un’opportunità – che sia nella scienza di base o nello sviluppo tecnologico – lui malgrado tutto la coglie. E la coglie, in media, in maniera più brillante di altri suoi colleghi stranieri.
Sarebbe interessante capire perché. Come mai in un Paese che "crede" così poco nella ricerca e investe in termini assoluti e relativi meno degli altri, c’è un nucleo, neppure tanto piccolo ma vitalissimo, di scienziati eccellenti? Come mai i ricercatori italiani, malgrado le condizioni al contorno, sono in media più bravi di altri e, in alcune punte niente affatto rare, raggiungono l’eccellenza assoluta?
Nei dati statistici non c’è una risposta chiara a queste domande. Nelle classifiche internazionali troviamo certificati gli effetti, ma non troviamo un’indicazione delle cause di questa strana e largamente misconosciuta condizione. Le cause probabilmente sono tante. La tradizione culturale: siamo la patria di Galileo Galilei, il pioniere della scienza moderna. L’ambiente culturale: forse le nostre università e le nostre scuole sono meno peggio di come le descriviamo, frequentate da maestri capaci di seminare in terreni peraltro fertili.
Forse non è un caso se la "vocazione profonda" della nostra letteratura più grande – da Dante ad Calvino, da Leopardi allo stesso Galileo – siano proprio la filosofia naturale e la scienza: significa che ai massimi livelli, la cultura scientifica e la cultura umanistica si incontrano molto di più e molto più profondamente di quanto percepisca in prima battuta la società, contribuendo a formare un ambiente culturale magari piccolo, ma ancora una volta molto fertile per lo sviluppo di nuove curiosità e l’acquisizione di nuove conoscenze.
Tra le cause della positiva anomalia della scienza italiana ci sono le relazioni che i nostri ricercatori hanno col resto d’Europa e del mondo. Relazioni che in alcuni settori scientifici sono particolarmente sviluppate: non è un caso, per esempio, che le spokesperson dei quattro esperimenti che vengono condotti presso la macchina più grande e potente mai costruita al mondo, LHC, presso il CERN di Ginevra, il più grande laboratorio al mondo di fisica delle alte energie, sono tutti italiani.
Tra le cause ci sono le intuizioni di alcuni uomini dallo "sguardo lungo" che nel Novecento hanno generato idee seminali per lo sviluppo non solo della scienza, ma del Paese: come, per citarne alcuni, il matematico Vito Volterra, il fisico Edoardo Amaldi, il chimico Giacomo Ciamician, il neurofisiologo Giuseppe Moruzzi, l’imprenditore Adriano Olivetti. Forse è una miscela di tutto questo che rende possibile, generazione dopo generazione, la nascita di tanti "nipoti di Galileo" capaci di rinnovare l’antica tradizione scientifica italiana.
Di tutto questo – e di altro ancora – i dati statistici non ci dicono. Per fortuna oltre i dati e, talvolta, più dei dati parlano le storie delle persone. Le storie dei mille e mille ricercatori italiani, che malgrado le enormi difficoltà hanno raggiunto (e giorno dopo giorno rinnovano) l’eccellenza assoluta. Non possiamo proporvi tutte queste storie. Che sono, appunto, mille e mille. Ve ne proponiamo sette, senza presunzione alcuna di completezza. Sette storie di vita, scientifica e non, di altrettanti ricercatori di eccellenza – noti, ma non notissimi al grande pubblico – che si sono sviluppate in sette diversi ambiti disciplinari. Storie frutto di contingenze, capacità, scelte personali, certo. Ma anche di tradizioni, scuole, ambienti culturali.
In queste sette storie, ne siamo certi, è possibile trovare non solo molte risposte alle nostre domande sulle cause della felice anomalia italiana: la presenza di grande scienza in un Paese che non crede nella scienza. Ma possiamo trovare anche le motivazioni più solide per fondare su di loro – sui "nipoti di Galileo" – il rilancio del Paese.