Condivido l'analisi del bell'articolo di Francesco Aiello sulla “tirannia” dei giornali scientifici “di lusso”, scaturita dalla denuncia sul Guardian di Randy Schekman, Premio Nobel per la medicina 2013 e aggiungo qualche considerazione e un po’ dettagli per chi ne vuole sapere di piu’.
In sostanza un problema centrale è che l'obiettivo di una casa editrice scientifica, come quello di qualsiasi altro editore, non è la scienza ma il profitto. Ciò è naturale e non ha impedito in passato di diffondere la scienza (o l’umanesimo nel caso di editori non scientifici). Nel caso degli editori scientifici, rispetto ad altri esiste però un conflitto di interesse, dato dal fatto che le riviste gestiscono storicamente il sistema di peer reviewing pre-pubblicazione.
Questo non deve necessariamente continuare a essere il caso, e infatti e neanche lo è in senso assoluto.
Infatti, quando si deve decidere di finanziamenti il processo di peer reviewing viene gestito dall'ente finanziatore e non da una rivista o editore. Esistono modelli alternativi che la comunita’ internazionale delle bioscienze a cui appartengo sta sempre più discutendo, quali la pubblicazione pre-peer review. In quest'ottica stanno prendendo piede arXiv e nelle scienze della vita biorXiv, due piattaforme gestite da Cold Spring Harbor per la pubblicazione, oltre che altre iniziative. Tra queste, segnalo anche f1000 research, un giornale open access con peer-reviewing aperto post pubblicazione, Pubmed commons, una piattaforma del National Institute of Health (NIH) americano, per il commento di articoli già pubblicati. In quest’ottica, non è inconcepibile che i giornali scientifici possano semplicemente finire per costruire un modello commerciale sulla selezione di articoli già pubblicati online per commentarli, spiegarli o evidenziarli e così vendere copie o abbonamenti.
Alcuni giornali come Nature fanno già ciò per news commenti.
Chiaramente i giornali “di lusso” non vogliono trasformarsi in una semplice “news outlet” perchè vorrebbe dire competere in un mercato aperto e non in un mercato chiuso, che ad tutt’oggi segue logiche quasi estorsive. Infatti, attualmente i maggiori profitti vengono fatti vendendo sottoscrizioni a universita' e centri di ricerca che ne hanno necessariamente bisogno per accedere ai contenuti scientifici che essi stessi producono in larga parte e di cui cedono tutti i diritti per poter pubblicare (Anche qui c’è ampia discussione e si propongono nuovi modelli di copyright).
Questo è più o meno come dover pagare per intero un prodotto che si e' contribuito a costruire per il 80%, il 20% rimanente essendo costituito da peer reviewing e servizi editoriali (formattazzione dell’articolo, stampa se su carta e distribuzione). Segnalo che anche ciò non deve essere la norma. Infatti, in altri settori, come quello della pubblicazione di libri, l’autore riceve una parte sostanziale dei profitti.
Umberto Eco è felice, il suo editore pure e io di pagare un prezzo ragionevole per leggerlo. Dato che il peer reviewing, come detto, non appartiene necessariamente agli editori, e che i servizi editoriali stanno diventando sempre meno giustificabili (nessuno va in edicola a comprare una copia di Nature e si stanno riducendo le università non usano accessi esclusivamente online), viene da chiedersi: Per che cosa paghiamo gli editori? Noah Gray, senior editor a Nature, suggerisce su twitter (@noahWG) che i giornali scientifici valgono appunto per la loro funzione di filtro su ciò vale la pena pubblicare, il vecchio motto del New York Times ("All The News That's Fit To Print", ovvero, tutte le notizie, e qui si direbbe la scienza, che valgono la pubblicazione), ma è lecito pensare che ciò non valga tutti i problemi e gli esborsi che la “tirannia” comporta.
E’ da tener presente che le universita’ e centri di ricerca necessariamente pagano gli editori per l’accesso con soldi pubblici o di donatori, sottraendo risorse alla ricerca. Questa è un’altra ragione, diciamo etico-economica, che sta spingendo l’NIH, Wellcome Trust, HHMI, Max Planck Society e altri finanziatori e università pubbliche e private in questi anni ad affrancarsi dalla “tirannia” degli editori scientifici, per esempio minacciando di boicottare le case editrici e in passato, più recentemente a finanziare giornali come elife, e e principalmente obbligando per legge che la ricerca finanziata fosse ad accesso aperto. Su quest’ultimo punto si stanno muovendo anche alcuni soggetti in Italia, per esempio la fondazione Telethon, la Fondazione Cariplo e l’Universita’ di Torino . Qualcosa di muove anche al MIUR, ma non vedo perchè lo stesso non possa adottare il modello dell’NIH per la diffusione della ricerca finanziata da soldi pubblici. Sarebbe bello saperne di più dal ministro Maria Chiara Carrozza o da qualcuno dei lettori più informato di me su questo punto.
In definitiva, il re (o meglio il tiranno) è nudo, gli editori scientifici lo sanno, tanto è vero che si stanno muovendo tutti per o cambiare “business model” o per scendere a patti con la comunità scientifica (un’ esempio importante di ciò è SFDORA). Gli editori scientifici attuali hanno una lunga tradizione. E’ normale che, come gli editori di quotidiani, risentano del incessante passo della modernità, del progresso e della globalizzazione. Elsevier, che pubblica Cell, per esempio, ha quasi mezzo millennio di storia e come altri, si è coevoluta e ha fortemente favorito in passato il nostro sistema di valutazione, disseminazione e usufrutto della scienza. Ora serve un modello nuovo che probabilmente dovrà slegarsi dagli editori. Non ha senso che gli editori affondino la scienza che hanno contribuito a far prosperare e sarebbe lecito auspicare che tornino ad un modello etico e meno dettato da logiche commerciali.
Ma nel Mare Magnum di quello che ho raccontato non si vede ancora un faro che ci porti in acque sicure. Tocca a tutti navigare usando quante più stelle possiamo per trovar la direzione.