Il 2015, dunque, sarà l’Anno Internazionale della Luce e delle tecnologie basate sulla luce
(IYL 2015): lo ha dichiarato
l’Assemblea generale delle Nazioni Unite. L’Anno della Luce segue l’Anno della
Fisica (2005), quello dell’Astronomia (2009) e quello della Chimica (2011),
giusto per ricordare alcuni altri Anni Internazionali dell’ultimo decennio,
strettamente collegati tra loro per l’argomento scientifico toccato.
Piero Galeotti nel suo editoriale ricorda alcuni aspetti che rendono
interessante per la fisica e per l’astronomia il tema della luce: il dualismo
onda/particella, le righe di Fraunhofer
che ci hanno svelato la composizione chimica dell’universo, il ruolo del redshift in cosmologia.
Farò qui qualche considerazione più generale. Innanzi tutto penso che queste
iniziative, gli “anni internazionali” dedicati a temi importanti, debbano
essere benvenute – e partecipate attivamente – perché contribuiscono a promuovere
scienza e cultura, offrendo occasioni per progetti ed eventi che aiutano a
valorizzare la ricerca di base e a spiegarne la stretta connessione con le
innumerevoli applicazioni tecnologiche dalle quali sempre più dipendono lo
sviluppo della società e il suo benessere.
Bene, quindi, che nella dichiarazione dell’IYL 2015 vi sia enfasi anche sulle tecnologie
basate sulla luce: rafforza il legame tra ricerca di base e innovazione
tecnologica. Lega cioè ai benefici che produce quella ricerca che molti nostri
governanti miopi, per non dire ignoranti (quelli – per intenderci – che si
chiedono: “Perché dovremmo pagare uno scienziato quando facciamo le migliori
scarpe del mondo?” o che affermano che “con la cultura non si mangia”)
considerano un BENVENUTI nell’era fotonica lusso, un divertissement per pochi,
e non una delle colonne portanti dell’economia e dello sviluppo di un Paese.
Speriamo dunque che oltre a fornire l’occasione per aumentare la consapevolezza
del grande pubblico nei confronti di argomenti interessanti e per stimolare
quell’interesse e quella curiosità che sono alla base della crescita
intellettuale della società, queste iniziative internazionali obblighino anche
i politici a prestare (un po’ più di) attenzione alla scienza.
La luce è senza dubbio una delle cose che ci sono più familiari. Eppure non
possiamo dire di averne una conoscenza completa: le sue proprietà e le sue
applicazioni continuano a stupirci. Con una temperatura superficiale di circa
5500 gradi, il nostro Sole emette onde elettromagnetiche in un ampio spettro di
lunghezze d’onda, dall’ultravioletto all’infrarosso, con il picco co nella zona
visibile, quella compresa tra 4000 e 7000 Angstrom, la luce appunto. Essa,
dunque, illumina la Terra da alcuni miliardi di anni, da prima che vi si sviluppasse
quella vita del cui sostentamento ed evoluzione la luce è stata protagonista.
La flora ha imparato a farne tesoro per ricavarne energia da trasformare in
crescita (attraverso la fotosintesi clorofilliana, una meraviglia chimico-fisica
che permette di combinare anidride carbonica e acqua per produrre glucosio,
trasformando così l’inorganico in organico) e la fauna, con pochissime
eccezioni, ha evoluto il senso della vista sviluppando sensori – gli occhi –
adatti alle più diverse condizioni ambientali e affidando loro le migliori chance di sopravvivenza.
La luce è il nostro principale veicolo d’informazione, sia per le più banali e
comuni esperienze quotidiane sia per le nostre ricerche scientifiche più
avanzate, ed è lei stessa oggetto di studi e di manipolazioni che continuano a
sorprenderci e a consentire sviluppi tecnologici innovativi.
La sua altissima
velocità di propagazione ha indotto a pensare che tale velocità potesse essere
addirittura infinita e il dibattito sul suo valore è durato secoli, e per secoli
si è basato su considerazioni e ragionamenti filosofici, a partire da quelli di
Empedocle, fautore della finitezza della velocità della luce, o da quelli di
Erone che la credeva invece infinita, proprio come la credevano ancora Keplero
e Cartesio nel XVII secolo. Ancor prima che fosse risolta la questione della
sua velocità, iniziò anche la discussione sulla sua natura: ondulatoria o
corpuscolare?
Tra i sostenitori della prima troviamo Aristotele, Cartesio e Huygens, tra
quelli della seconda Democrito, Gassendi e soprattutto Newton. A differenza
della questione riguardante la sua velocità, che si concluse definitivamente a
favore di un valore finito (Rømer, 1676), quella relativa alla sua natura ha
dispensato, con alterne vicende, ragioni a entrambe le parti. Per rimanere
nell’ambito della fisica moderna, ricordiamo che la teoria ondulatoria
raggiunse il massimo della sua popolarità quando Maxwell, combinando quattro
equazioni, ricavò la descrizione delle onde elettromagnetiche, la loro velocità
nel vuoto (uguale per tutte e coincidente con la velocità, ormai nota, della
luce) e rese evidente che luce visibile, radiazione ultravioletta e radiazione
infrarossa, erano concettualmente la stessa cosa – onde elettromagnetiche,
appunto – e differivano solo per il valore della loro frequenza.
Ma, meno di cinquant’anni dopo, Einstein
rimise tutto in discussione con la sua spiegazione dell’effetto fotoelettrico
che portava alla quantizzazione della luce e all’introduzione del concetto di
“fotone”, il quanto di luce.
Oggi, siamo in pace con il fatto che la luce
mostra proprietà che sono meglio comprese ricorrendo ora a un comportamento
corpuscolare, ora a uno ondulatorio, e ci siamo addirittura convinti che la
luce è sia onda sia particella, così come lo sono quelle che inizialmente
pensavamo fossero solo particelle di materia, come, ad esempio, gli elettroni.
La luce e i Nobel
Studi del comportamento della luce (o più in generale
della radiazione elettromagnetica), e delle sue forme d’interazione con la
materia, sono stati spesso premiati con il Nobel, come nel caso dell’effetto
fotoelettrico (proprio Einstein, 1921); del laser (Townes, Basov e Prokorov,
1964); dell’invenzione e sviluppo delle tecniche olografiche (Gabor, 1971); della
trasmissione della luce in fibre ottiche (Kao, 2009) e, da ultimo,
dell’invenzione dei diodi (LED) a emissione di luce blu che hanno permesso di
potenziare e rendere più brillanti le fonti di luce bianca consentendo un
contestuale risparmio di energia (Akasaki, Amano e Nakamura, 2014).
Innumerevoli sono gli sviluppi tecnologici che sono derivati dagli studi
teorici e di laboratorio e la società contemporanea ne è capillarmente
permeata, con particolare riferimento all’elaborazione e trasmissione delle
informazioni (ICT: tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni).
Tra le tecnologie innovative sviluppate più di recente, vi è lo sfruttamento
del momento angolare orbitale del fronte d’onda, che potrebbe permettere di
raggiungere tassi di trasmissione di dati, via fibre ottiche, enormemente
superiori a quanto attualmente possibile (fino a 320 Gb/s), così come un potere
risolutivo un ordine di grandezza maggiore del limite di diffrazione, in un
qualsiasi strumento ottico – un telescopio ad esempio – caratterizzato appunto,
da tale limite.
Tra quelle in via di sviluppo, è di ovvio interesse la costruzione di un
computer ottico. Utilizzare la luce (i fotoni) anziché gli elettroni richiede
molta meno energia e sviluppa molto meno calore. I fotoni, inoltre, si muovono
nelle fibre a velocità notevolmente superiore a quella con cui si muovono gli
elettroni nei cavi. Un computer ottico, basato su fotoni, ha bisogno però che
questi siano in grado di interagire tra di loro modificando reciprocamente il proprio
comportamento e questo non è facile: due fotoni che interagiscono nel vuoto,
semplicemente si passano attraverso senza disturbarsi.
Ma ecco che ricercatori del MIT, insieme a colleghi dell’Università di Harvard
e dell’Università Tecnologica di Vienna, sono riusciti a costruire un
dispositivo dove un singolo fotone controlla un commutatore ottico e quindi
permette di gestire la trasmissione di luce. È dunque l’analogo ottico di un
transistor, il componente fondamentale di un circuito computazionale. Possiamo
aspettarci che i fotoni e le fibre ottiche sostituiranno progressivamente gli
elettroni e i cavi di rame in un numero sempre maggiore di applicazioni,
permettendo ulteriori sviluppi nell’informatica e nelle tecnologie
dell’informazione e delle comunicazioni. Così come possiamo immaginare che
tecnologie che oggi sono in uno stato abbastanza “primitivo” – come ad esempio
quelle relative ai mantelli per l’invisibilità di cui abbiamo parlato tempo
addietro (v. “le Stelle” n. 129, pp. 12-13) – progrediscano a tal punto da
permettere applicazioni pratiche quotidiane, sia militari sia ludiche. Già,
perché le tecnologie basate sulla luce sono sempre più presenti anche nel campo
dell’intrattenimento.
Non sto pensando agli enormi televisori sottili basati sulla tecnologia LED che
già ora ci offrono anche la possibilità di ammirare immagini e filmati
tridimensionali, penso piuttosto ai concerti olografici dal vivo,
d’impressionante verosimiglianza, dove artisti, anche defunti da tempo (!),
cantano e ballano per il piacere dei loro fan. Il primo concerto olografico
tridimensionale ha avuto luogo in Giappone nel 2010.
La scorsa primavera, al Billboard Music Award di Las Vegas, in Nevada, gli spettatori hanno potuto assistere a una performance olografica di Michael Jackson (deceduto nel 2009). Più recentemente la tecnica olografica ha permesso a Julian Assange, cofondatore di WikiLeaks, e confinato dal 2012 nell’Ambasciata dell’Equador a Londra, di partecipare a un dibattito con il regista e produttore cinematografico Eugene Jarecki, tenutosi a Nuntacket (Massachusetts) nel settembre del 2014 e conclusosi con un simpatico tentativo di “darsi il cinque” tra persona reale e ologramma.
Nella Korea del Sud il MISP (Ministry of
Science, ICT and Future Planning) in collaborazione con Korea Telecom ha
inaugurato un teatro concepito per ospitare esclusivamente spettacoli olografici
di musica pop, investendo in questa impresa 9,3 miliardi di dollari. Sul sito
del Ministero della Scienza, ICT e Programmazione della Repubblica di Korea si
legge: “Scienza, tecnologia e ICT: la chiave per un’economia creativa e per un
maggior benessere della popolazione”.
Che abbiano capito che con la scienza (che è una forma di cultura) si può
invece mangiare?
Tratto da Le Stelle n° 138, gennaio 2015