Mi capita spesso durante un viaggio, vuoi in treno, vuoi in aereo, di scambiare due chiacchiere con chi mi sta seduto vicino. Inevitabilmente a un certo punto arriva la domanda: “E lei che lavoro fa?”. Ho due possibili risposte. Se la conversazione è gradevole e mi fa piacere continuarla, rispondo che sono un astronomo; se invece non vedo l’ora di riprendere la lettura del libro che ho con me, oppure sono un po’ stanco e desidero sonnecchiare, rispondo che sono un fisico. Posso scegliere tra le due in tutta onestà in quanto sono un fisico di studi e di laurea, e un astronomo (astrofisico) di specializzazione e professione. Ogni volta, comunque, trovo conferma di come la prima risposta metta l’interlocutore a proprio agio nella conversazione e stimoli le sue curiosità, mentre la seconda crea più facilmente un certo distacco e porta rapidamente la conversazione a esaurirsi. Io in genere rispondo “l’astronomo” e mentre lo faccio ripasso mentalmente buchi neri e supernovae, ufo e vita nell’universo, asteroidi, calendari e profezie Maya, universi paralleli e altro ancora e mi preparo alla prima domanda. Ma può capitare – e in questi ultimi tempi di tagli alle università e alla ricerca e più in generale al pubblico impiego capita sempre più spesso – che la domanda successiva sia: “Ma che cosa fate veramente? Che cosa producete?”. Immagino che questo succeda anche ai colleghi che si occupano di fisica teorica, di logica matematica, o di altri aspetti della ricerca di base, quella che – appunto – sembra non avere alcuna utilità pratica. Spesso mi ritrovo a discutere, anche con interlocutori non occasionali come le persone incontrate casualmente in viaggio, dell’importanza della ricerca di base, o ricerca fondamentale, e mi rendo conto di come essa sia comunemente percepita come un’attività totalmente astratta, che non produce ritorni di utilità pratica, ma semplicemente soddisfa chi la fa. Ed è forse per questo che ho un rapporto conflittuale con l’espressione che spesso viene utilizzata per indicare la ricerca di base: curiosity driven (guidata dalla curiosità).
Se da un lato questa espressione contiene la bellezza della libertà di studiare per sapere e per capire, dall’altro si presta a far
considerare la ricerca un lusso che la società si può permettere solo nei tempi di vacche grasse, un investimento a perdere.
La ricerca applicata invece...
Nulla di più falso! Innanzi tutto lasciatemi assumere un punto di vista estremo e
lasciatemi dunque sostenere che la ricerca
applicata non esiste ma esistono piuttosto
le molte applicazioni della ricerca di base.
Senza la ricerca di base non faremmo
progressi significativi nella conoscenza
e non avremmo nuovi principi e nuove
scoperte da trasformare in tutte quelle
applicazioni che rendono la nostra vita
più sicura, più gradevole, più interessante
(condizionatori d’aria, navigatori satellitari, TAC, risonanza magnetica e così
via). Fatemi poi ricordare che era ricerca
di base quella di Faraday e di Franklin.
Studiavano l’elettrologia, e dai loro studi
sono derivate le centrali elettriche. Volta
e Galvani non cercavano di liberare dalla
servitù dei cavi tanti piccoli elettrodomestici. E nemmeno di poter alimentare strumentazione lontana dai terminali della rete di distribuzione che ancora non
esisteva. Ma questo è quanto è scaturito
dalle loro ricerche. Senza quegli studi
apparentemente astratti non avremmo
l’energia elettrica (e tutto quanto ne consegue). Cambiando campo della fisica, possiamo
renderci conto che sono innumerevoli
anche le applicazioni derivate dallo studio dell’interazione tra radiazione e materia. Basta pensare al laser utilizzato, ad
esempio, in metallurgia, in medicina e in
metrologia, ma anche per registrare e riprodurre musica e filmati, e, più in generale, dati di ogni tipo. E potrei continuare
con i semiconduttori o la superconduttività e altro ancora.
E l’astronomia e l’astrofisica? Ricerca di
base per eccellenza (cosa c’è di più astratto e lontano dalla vita quotidiana di stelle
e galassie?), cosa riescono a produrre di
utile? Tantissime cose di cui abbiamo già
dato conto con un certo dettaglio tempo addietro, in questa stessa rubrica (Le
Stelle n. 95, maggio 2011).
Il bello e la forza della ricerca di base è
che non si sa cosa si troverà (e nemmeno
quando lo si troverà, ed è proprio questo
che preoccupa chi finanzia la ricerca) ma
si sa che si troverà qualcosa e che questo
qualcosa spesso si rivelerà rivoluzionario.
Tanto più rivoluzionario quanto più il
risultato sarà inatteso o serendipito, per
usare un neologismo (derivante dal sostantivo serendipity coniato dallo scrittore
inglese Walpole) che esprime proprio il
bellissimo concetto della scoperta gradevole e inattesa. Walpole si ispirò a una
fiaba persiana: “I tre Prìncipi di Serendip”
(il vecchio nome dello Sri Lanka). Questi
Prìncipi, viaggiando, continuavano a scoprire, in modo fortuito, cosa di cui non erano alla ricerca, ma che riconoscevano come importanti grazie alla loro sagacia.
“Serendipico” può essere probabilmente considerato uno degli aggettivi più appropriati da usare quando si parla di ricerca, attività che ha come stimolo primario la curiosità, il desiderio di avventurarsi in territori inesplorati per trovare e per scoprire, per allargare le nostre conoscenze, e che spesso – appunto – trova anche quello che non cerca. E in effetti, nella storia della scienza, quante scoperte sono state delle gradevoli sorprese, quante sono giunte inaspettate mentre si studiava o si cercava qualcos’altro? Quante hanno poi aperto interi filoni di ricerca o hanno risolto problemi la cui soluzione veniva cercata inutilmente da tutt’altra parte? Molte. Più di quante si sia portati a pensare, ed esse hanno avuto luogo negli ambiti scientifici più diversi. In medicina, la penicillina di Fleming, una muffa caduta accidentalmente in una coltura di batteri, aprì la via degli antibiotici. Più recentemente è stato sintetizzato il Sildenafil, farmaco prodotto nel tentativo di risolvere i problemi dell’angina pectoris, che invece, con i suoi interessanti e apprezzati effetti collaterali, ha risolto con successo una patologia molto diversa (il Sildenafil è commercializzato con il nome di Viagra). Innumerevoli sono poi le scoperte serendipite in ambito chimico, dalla supercolla alle fibre tessili (rayon), ad alcuni dolcificanti alternativi agli zuccheri, come saccarina e aspartame. La fisica e l’astronomia non fanno eccezione: superconduttività, radiazione cosmica di fondo, giusto per ricordarne un paio. Il fatto che alcune di queste scoperte serendipite abbiano portato all’assegnazione del premio Nobel agli autori fa capire che si tratta di scoperte importanti. E non è stata premiata la casualità della scoperta (sarebbe stato un Nobel alla fortuna) bensì la sagacia degli scopritori che hanno saputo capirne ragione, implicazioni e sviluppi.
La ricerca è fertile quando l’intelletto ha modo di vagare e sperimentare liberamente senza condizionamenti, senza l’ansia di dover ottenere rapidamente dei risultati (che comunque verranno), pena la riduzione dei finanziamenti. La ricerca ha tempi (e risultati) non sempre pianificabili e prevedibili. È difficile sapere, ancor prima di iniziare, cosa si troverà e quando lo si troverà. Ma l’esperienza insegna che di risultati ce ne saranno senz’altro (ce ne sono sempre stati), che saranno sicuramente ad alto impatto, tanto per la crescita culturale quanto per la crescita tecnologica, quella di cui potranno tangibilmente beneficiare quei contribuenti che, in ultima analisi, la ricerca (pubblica) l’hanno finanziata. Guai a sottovalutare l’importanza e l’impatto della ricerca scientifica o anche ad averne una visione aziendale: se ne ridurrebbe l’efficacia e così facendo si perderebbero occasioni di crescita per il paese. Preoccupa dunque il radicarsi di un’impostazione che considera la ricerca una attività facilmente prevedibile, sempre e completamente programmabile, dai risultati anticipabili nei tempi e nei modi, alla stregua di un servizio, anche se importante. Se dovesse prevalere, si tarperebbero le ali alla creatività e si disincentiverebbe proprio quell’applicazione fantasiosa dell’intelletto che è alla base dei grandi risultati, quelli nuovi e inattesi che hanno influenzato ripetutamente il progresso dell’uomo. Questo non vuol dire che la ricerca e i suoi risultati non possano o non debbano essere valutati, anche in ragione delle risorse investite, anzi! E certamente la costruzione di grandi infrastrutture, siano queste laboratori, acceleratori, telescopi, satelliti, va attentamente programmata. Ma quando si tratta poi di utilizzarli, non imbrigliamo i ricercatori, lasciamoli liberi di esprimersi favorendo la loro creatività e fantasia. Il trasferimento tecnologico è la liaison tra la ricerca di base e lo sviluppo di quei manufatti che ci migliorano la vita. Senza i risultati della ricerca però non ci sarebbe molto da trasferire. Eppure non molto tempo fa c’è stato tra i nostri governanti chi si è chiesto: “Perché dovremmo pagare uno scienziato, quando facciamo le migliori scarpe del mondo?”. Tuttora c’è chi continua a non capire che le crisi economiche, la recessione, il declino, non si combattono con continui tagli alla ricerca scientifica ma piuttosto con investimenti in quella che è la materia prima della società della conoscenza (leggi qui). La ricerca fondamentale è un po’ come i ghiacciai di alta montagna che alimentano i fiumi che a loro volta permettono alle campagne di essere fertili. Se smette di nevicare in montagna, non subito ma dopo qualche tempo i fiumi seccano e le campagne inaridiscono. Ed è carestia. Per tutti.
Tratto da: Le Stelle n. 111, ottobre 2012