Le equazioni, un modo estremamente conciso e simbolico di descrivere
un fenomeno, sono eguaglianze che possono essere utilizzate per trovare il
valore di un termine, l’incognita, quando sono noti i valori degli altri termini.
Per esempio, l’equazione di stato dei gas perfetti (p = nRT/V), ci permette di ricavare
la pressione p esercitata da un gas, una volta noto il volume V che occupa, la sua
temperatura T, il suo numero di moli n (e ricordando il valore della costante
R), così come l’equazione del moto ci permette di ricavare l’accelerazione “a”
che risulta dall’applicare una forza “F” a una massa “m”.
Un’equazione che non permettesse di essere “risolta”, di arrivare a un
risultato, lascerebbe molti quanto meno perplessi.
E’ questo il caso dell’equazione − famosa, ma appunto controversa − formulata dal radioastronomo Frank
Drake nel 1961 e che da lui prende il nome.
L’equazione nasce in occasione della prima conferenza SETI (Search for Extra-Terrestrial Intelligence) organizzata a Green Bank in
Virginia (USA) per rispondere alla domanda che è alla base del progetto SETI:
“Quante sono oggi le civiltà nella nostra Galassia con cui è possibile
stabilire una comunicazione radio?”.
L’approccio di Drake è quello di trattare il problema come un problema di Fermi
(dei problemi di Fermi abbiamo parlato in questa stessa rubrica tempo addietro,
v. “le Stelle” n. 106, pp. 8-9) scomponendolo nei suoi termini elementari e
impostando un’analisi per ordini di grandezza e stime ragionevoli delle
quantità in gioco di cui non si conoscono (ed è impossibile determinare con
sicurezza) i valori.
L’equazione di Drake è:
N = R*x ƒp x ne x ƒl x ƒi x ƒc x L
Dove R* è il tasso medio di formazione stellare della nostra Galassia, ƒp la
frazione di stelle intorno alle quali esistono sistemi planetari, ne
è il numero medio di pianeti (o satelliti), per sistema planetario, che possono
permettere lo sviluppo di vita, ƒl è la frazione di questi in cui effettivamente la vita si sviluppa, ƒi è la frazione in cui la vita evolve in forme intelligenti (civiltà),
ƒc è la frazione di dette civiltà che sviluppa una
tecnologia per propagare segnali radio rivelabili nello spazio e infine L è il
tempo (durata) in cui tale civilizzazione propaga effettivamente nello spazio segnali
radio rivelabili.
Se moltiplicate tutti questi fattori tra di loro ottenete un numero puro
(adimensionale) visto che il primo
termine ha le dimensioni di una frequenza, l’ultimo di un tempo e gli altri sono altrettanti
numeri puri.
Quello che ottenete è dunque N,
il numero di civiltà della nostra
Galassia che, oltre a noi, effettivamente trasmettono segnali radio nello
spazio.
È certamente chiaro a tutti che quando l’equazione fu presentata (era il 1961),
i vari parametri
che la definiscono erano talmente incerti (o completamente sconosciuti) da renderla
del tutto inutilizzabile per arrivare a una stima di N.
Basta ricordare ad esempio, che a quel tempo non un singolo
pianeta extrasolare era ancora stato scoperto. Era quindi possibile, facendo opportune
ipotesi (non sostenute da alcun fatto, ma nemmeno negabili con certezza),
risolverla ottenendo per N valori
compresi tra zero e molti miliardi. Ed è attribuibile proprio a questa
incertezza l’origine della controversia sull’importanza dell’equazione di
Drake.
Che possa essere “risolta” ottenendo quel che si vuole, fornisce buoni
argomenti a chi la considera inutile e non-scientifica, nel senso di essere
costruita su ipotesi non verificabili. Forse Pauli, fosse stato ancora vivo,
l’avrebbe liquidata con il suo proverbiale “non è nemmeno
sbagliata”. Altri, io con loro, la ritengono comunque un utile e interessante
esercizio intellettuale, meritevole, di tanto in tanto, di essere rivisitato.
Questa non è tuttavia una buona ragione per buttar via
l’equazione di Drake.
Da quando Drake scrisse la sua equazione abbiamo infatti
registrato moltissimi progressi che ci permettono di ragionare con maggior
confidenza almeno sui suoi primi termini. Il tasso di formazione stellare nella nostra Galassia è stato oggetto in questi ultimi anni di approfonditi studi a diverse
lunghezze d’onda che si sono avvalsi dei dati ottenuti con i migliori telescopi
disponibili, a terra e nello spazio, da GALEX a Spitzer, da Hubble a Herschel.
Sappiamo che è dell’ordine di 1-2 masse solari all’anno e
che questo valore è noto entro un fattore due. Il primo termine dell’equazione, di
totale competenza degli astronomi, si può a questo punto considerare noto. Anche il
secondo termine (la frazione di stelle dotate di pianeti) è di competenza degli
astronomi, i quali hanno ormai confermato l’esistenza di oltre mille pianeti
extrasolari (ancor più sono i candidati in fase di studio).
Di questi, molti sono in
sistemi multipli, sistemi che − come il nostro − vedono diversi pianeti orbitare intorno
alla stessa stella. Si consolida quindi, sulla base di dati osservativi, la convinzione che
sia molto comune, per una stella, essere caratterizzata da un sistema
planetario complesso. Dunque, anche sul secondo termine dell’equazione gli astronomi stanno facendo
chiarezza e riducendo le incertezze: ƒp è grande, probabilmente molto
vicino a 1.
Su ne (il numero di pianeti in
un dato sistema planetario con condizioni favorevoli allo
sviluppo della vita; che si trova quindi nella cosiddetta fascia di
abitabilità, v. “le Stelle” n. 129, pp. 72-73) e su ƒl (frazione
di questi in cui e1ettivamente la vita si sviluppa) stiamo lavorando ma ci vorrà
ancora del tempo prima che si possano avere stime quantitative robuste.
Cominciano
comunque ad apparire alcuni risultati preliminari; una recente analisi dei dati
ottenuti dal satellite Kepler, ad esempio, ha portato alcuni ricercatori a
sostenere che il 22% delle stelle simili al Sole possiede pianeti delle dimensioni
della Terra in orbita nella zona abitabile.
È bene comunque ricordare che il concetto di abitabile è tutt’altro che
condiviso ed è ancora oggetto di riflessioni e discussioni (v. “le Stelle” n. 123, pp. 10-11).
Quello che gli astronomi possono fare, e hanno allo studio strumentazione
sempre più
adatta per farlo, è di caratterizzare sempre meglio le proprietà dei pianeti scoperti
(albedo, temperatura superficiale e sue variazioni, caratteristiche orbitali, ecc.)
e in particolare studiare le loro atmosfere (composizione chimica) per capire se
siano adatti allo sviluppo di qualche forma di vita o se addirittura la stiano eventualmente
ospitando (lo potremmo forse capire attraverso la rilevazione dei cosiddetti
bio-indicatori, quali ad esempio l’ossigeno e l’ozono, l’ossido di diazoto, e ancor
più le molecole organiche).
Qui il
discorso diventa però inevitabilmente più incerto in quanto non abbiamo esperienza
in materia di varietà di forme di vita, conoscendo solo quella che si è
sviluppata sulla Terra.
La
determinazione di ne e di ƒl è comunque possibile, richiederà
tempo e una notevole quantità di dati e
il contributo non solo degli astronomi ma anche di chimici, biologi e geologi. Non c’è dunque ragione perché in un futuro nemmeno troppo lontano non si
possano determinare, con ragionevole approssimazione, i primi quattro termini
dell’equazione di Drake.
Ma qui si finisce di ragionare: ƒi (la
frazione di pianeti in cui la vita evolve in forme intelligenti
organizzate in civiltà) e ƒc (la frazione di dette civiltà che
sviluppa una tecnologia
per trasmettere segnali radio rivelabili nello spazio) sono oggetto di pura
speculazione. Per non dire di L (la durata di una tale civilizzazione capace e
interessata alla comunicazione radio interstellare),
che è stata discussa unicamente nei romanzi di fantascienza e, almeno fino a
quando saremo soli (e non avremo dunque accumulato dati al riguardo), è impossibile
da determinare, anche con il concorso del sapere di tutte le discipline.
Questa non è tuttavia una buona ragione per buttar via l’equazione di Drake.
Vale invece la pena di rivisitarla chiedendosi se si possa migliorare
riformulando la domanda iniziale, spostando l’interesse dal numero di
“radioamatori” nella nostra Galassia (giustificato dall’interesse di Drake
nell’allora nascente progetto SETI) al numero, certamente maggiore, e più facilmente determinabile, delle
forme di vita complesse.
Questa generalizzazione è motivata e giustificata dal
crescente interesse per lo studio degli esopianeti reso possibile
dall’impressionante quantità e qualità dei dati che sono diventati disponibili
e in previsione di quelli che lo diventeranno nei prossimi anni.
Se consideriamo il nostro pianeta, la Terra, ci possiamo facilmente rendere
conto di essere stati “radioamatori” (ascoltando poco e parlando quasi mai) per
una frazione insignificante (in prima approssimazione 3x10-8, ovvero trenta
miliardesimi) del tempo in cui siamo stati invece “abitabili”.
Uno studio della Terra, analogo a quelli che stiamo
conducendo – o programmando di condurre – su alcuni degli esopianeti
recentemente scoperti, fatto da qualche alieno in un qualsiasi momento degli ultimi due miliardi di anni,
avrebbe dimostrato quanto è interessante il terzo pianeta più interno del
Sistema Solare. Ma nessuno se ne sarebbe accorto ascoltandoci a 1420 MHz, se
non per una frazione risibile di questo tempo.
Chiudo con una nota “leggera” e divertente. Non esiste solo il progetto SETI; l’amico e collega Roberto
Della Ceca, coordinatore dell’unità dell’INAF per la gestione dei
progetti spaziali, ha trovato in rete e mi ha segnalato anche il progetto WETI
(Waiting for extraterrestrial intelligence). Consiglio vivamente di leggere). Mi
chiedo quale di questi due progetti, SETI o WETI, darà per primo la notizia
della scoperta di un’intelligenza extraterrestre.
Tratto da Le Stelle n° 131