Quando Omicron è emersa in Sudafrica a fine novembre, i ricercatori del La Jolla Institute for Immunology (LJI) a San Diego in California avevano un vantaggio: saper preparare i reagenti necessari a valutare la tenuta dell’intera risposta immunitaria delle persone vaccinate nei confronti della nuova variante del SARS-CoV-2.
Il grande numero di mutazioni presenti nella regione della proteina spike chiamata receptor binding domain lasciavano intuire che gli anticorpi prodotti dopo aver ricevuto i vaccini formulati sulla base della virus ancestrale, quello isolato a Wuhan alla fine del 2019, avrebbero fatto fatica a riconoscere Omicron e quindi a bloccare l’infezione.
Le speranze del gruppo coordinato da Alessandro Sette, Daniela Weiskopf e Shane Crotty erano le cellule T, la componente della risposta immunitaria che coordina l’attivazione delle cellule B inducendole a produrre anticorpi al momento di un nuovo incontro col virus ma che è anche in grado di riconoscere le cellule infettate ed eliminarle.
I ricercatori avevano già testato la robustezza delle cellule T prodotte dai vaccinati contro le prime varianti preoccupanti del virus, Alfa, Beta e Gamma, usando la stessa tecnica di preparazione dei reagenti. Avevano anche trovato una spiegazione a questa robustezza: studiando la sequenza genomica delle diverse varianti virali, osservavano che nella maggioranza dei casi le mutazioni non interessavano le porzioni della proteina spike responsabili per l’attivazione delle cellule T. La maggior parte di queste porzioni erano conservate, cioè non presentavano alcuna mutazione.
Questo primo risultato, ottenuto a luglio del 2021, offriva una spiegazione biologica convincente di quello che nel frattempo gli epidemiologi osservavano sul campo: con le nuove varianti del virus l’efficacia dei vaccini nell’evitare l’infezione diminuiva (al netto dell’effetto di attenuazione della risposta anticorpale col passare del tempo), ma la protezione dalla malattia grave restava alta.
Diversi studi, tra cui uno condotto proprio nel laboratorio di Sette, hanno infatti legato la presenza di una risposta T soddisfacente a decorsi clinici asintomatici o lievi già nelle infezioni naturali analizzando il sangue delle persone che si sono ammalate durante la prima ondata.
Le cellule T proteggono dalle forme gravi
Anche nel caso di Omicron, i dati raccolti in Sudafrica prima e nel Regno Unito poi, mostravano che mentre l’efficacia di due dosi del vaccino di Pfizer-BioNTech nell’evitare l’infezione sintomatica con Omicron era sensibilmente ridotta rispetto a quella osservata con Delta (fino a diventare sostanzialmente nulla a sei mesi di distanza dalla seconda dose) quella verso l’ospedalizzazione si attestava intorno al 70% in media tra le due settimane e i sei mesi dopo la seconda dose, scendendo al 50% a oltre sei mesi di distanza.
Dopo una maratona sperimentale durata l’intero mese di dicembre, i ricercatori del LJI hanno pubblicato i loro risultati sulla rivista Cell questa settimana. Hanno estratto le diverse componenti della risposta immunitaria dal sangue di quasi cento soggetti vaccinati, principalmente con i vaccini di Pfizer e Moderna, e le hanno messe alla prova contro le diverse varianti del virus, compresa Omicron.
«I nostri esperimenti indicano che a sei mesi di distanza dalla vaccinazione mentre la reattività delle cellule B e degli anticorpi neutralizzanti è molto ridotta contro Omicron rispetto al virus ancestrale, le cellule T diminuiscono di poco la loro risposta», spiega Alba Grifoni, ricercatrice nel laboratorio di Sette e che ha all’attivo ormai una decina di lavori sul ruolo delle cellule T nell’infezione e nella vaccinazione contro SARS-CoV-2 pubblicati negli ultimi due anni su alcune tra le più prestigiose riviste scientifiche del mondo. «La capacità delle cellule T di riconoscere le cellule infettate con Omicron si riduce dell’84-85% rispetto a quella di riconoscere le cellule infettate con il virus ancestrale, con cui sono stati formulati tutti i vaccini che abbiamo a disposizione. La capacità delle cellule B di attivarsi davanti a Omicron si riduce fino al 42%, se si considerano quelle responsabili per la produzione degli anticorpi neutralizzanti». Se si misura poi la capacità di neutralizzazione di Omicron da parte degli anticorpi, la riduzione è ancora più marcata. Uno studio condotto in Sudafrica a metà dicembre aveva stimato una riduzione fino al 5%.
«I nostri risultati suggeriscono che le cellule T contribuiscono a mantenere elevata la protezione dei vaccini verso le forme gravi della malattia anche con Omicron», commenta Grifoni «ma sicuramente non sono l’unico fattore. Diversi studi hanno dimostrato che Omicron è meno abile di Delta a infettare le cellule dei polmoni e sappiamo che le forme gravi insorgono quando c’è un interessamento polmonare.»
Le cellule T esercitano minore pressione selettiva
Per preparare i reagenti necessari a testare la tenuta delle cellule T alle varianti, i ricercatori hanno costruito per ciascuna di esse un campione di frammenti della proteina spike.
Nel caso di un’infezione naturale, le cellule T si accorgono della presenza del virus quando questo è ormai entrato nelle cellule dell’ospite. Se ne accorgono perché la superficie delle cellule infette viene “decorata” con frammenti del virus legati a un particolare tipo di proteine di membrana, chiamate HLA. Queste proteine giocano un ruolo importante nei trapianti di tessuto o di organo: è infatti necessario che ci sia corrispondenza tra le HLA del donatore e quelle del destinatario per evitare il rigetto. La difficoltà nel trovare donatori è dovuta proprio al fatto che le proteine HLA sono estremamente “personalizzate”. La ragione per cui il sistema immunitario possiede questa caratteristica è che ci protegge dalle conseguenze peggiori delle infezioni virali evitando che i virus eludano la risposta delle cellule T. «Essendo una risposta molto specifica, una mutazione capace di eludere la risposta di un individuo probabilmente non è in grado di evitare anche quella di un altro individuo e dunque non viene selezionata durante il processo evolutivo», spiega Grifoni e aggiunge «diverso è quello che accade durante un’infezione cronica, come quella con HIV, in cui il virus si replica a lungo all’interno dello stesso organismo: in quel caso la risposta T ha il tempo di esercitare pressione selettiva sul virus. Covid-19, almeno nella maggioranza dei casi, è un’infezione breve e acuta e non c’è tempo perché questo fenomeno accada». Continua a leggere su Scienza in rete