newsletter finesettimana #64
finesettimana #64 / 19 febbraio 2022 a cura di Chiara Sabelli
Buon sabato,
questa settimana parliamo dell'impatto della pandemia sulla ricerca biomedica.
Una recente analisi delle pubblicazioni raccolte su PubMed ha mostrato che gli articolo su temi
molto collegati a Covid-19 sono aumentati rapidamente a discapito degli argomenti meno affini.
Anche gli studi clinici su patologie diverse da Covid-19 sarebbero stati rallentati dalla pandemia.
I fondi, infine, sarebbero stati dirottati su Covid-19. È urgente che la politica intervenga
incentivare un ri-orentamento dei ricercatori. Poi alcuni suggerimenti di lettura dai giornali internazionali.
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Covid-19 ha monopolizzato la ricerca biomedica
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L’ageusia, la perdita del gusto, era un argomento di nicchia nella ricerca biomedica fino a gennaio 2020. PubMed, il database curato dai National Institutes of Health statunitensi che raccoglie le pubblicazioni in ambito medico e biologico di tutta la comunità scientifica internazionale, contava 9 articoli sul tema nel 2018 e 7 nel 2019. Lo scoppio della pandemia ha cambiato le cose e nel 2020 gli articoli riguardanti questa patologia sono stati 176. Lo stesso è accaduto per la quarantena, circa 700 pubblicazioni sul tema nel 2018 e 2019 e 3 500 nel 2020, o per le mascherine, 470 nel 2018, 684 nel 2019 e oltre 2000 articoli nel 2020. Ma all’ascesa di ageusia, quarantena e mascherine, insieme ad altri argomenti di ricerca legati a Covid-19, ha corrisposto una contrazione dell’attenzione dei ricercatori verso quelli non legati alla pandemia.
Tra il 2019 e il 2020 il numero di pubblicazioni su temi non affini a Covid-19 è diminuito quasi del 10%, e la contrazione è ancora più marcata se si pesa il numero di pubblicazioni con l’impact factor delle riviste che le hanno ospitate: il 16%. Il numero di pubblicazioni fortemente affini a Covid-19 è invece aumentato più di 6 volte tra il 2019 e il 2020. Un impatto simile si vede anche sulle pubblicazioni legate a trial clinici e a finanziamenti di ricerca, un segnale, seppure indiretto, che la pandemia ha provocato la sospensione o il rallentamento degli studi clinici dedicati ad altre patologie e il dirottamento dei fondi.
Questo è il quadro che emerge da un’analisi quantitativa condotta da Massimo Riccaboni, professore di economia all’IMT di Lucca e Luca Virginer, ricercatore post-doc all’ETH di Zurigo, pubblicata la scorsa settimana sulla rivista PLOS ONE. I due scienziati hanno classificato gli oltre tre milioni e mezzo di articoli scientifici archiviati su PubMed tra il 2019 e il 2020 secondo la loro affinità con Covid-19, dividendoli in tre categorie: non collegati alla pandemia, mediamente collegati e altamente collegati. Per farlo hanno usato una serie di parole chiave chiamate MeSH (Medical Subject Headings) con cui vengono annotati gli articoli contenuti nel database, anche se con un certo ritardo rispetto alla data di pubblicazione. Per ovviare a questo ritardo gli autori hanno ottenuto da PubMed la lista completa delle parole chiave e hanno cercato ciascuna di esse nei titoli e negli abstract delle pubblicazioni più recenti che non erano ancora state annotate. Questa procedura ha dei margini di errore, perché normalmente i MeSH vengono attribuiti manualmente agli articoli e questo ne garantisce la maggiore affidabilità. Tuttavia, gli autori ritengono che la procedura sia sufficientemente accurata da produrre una classificazione accettabile degli articoli.
Tra le parole chiave che più spesso vengono citati insieme a Covid-19 ci sono coronavirus (55 256 articoli su PubMed nel 2020 e un’affinità del 99,9% – l’affinità è la probabilità che la parola chiave si trovi insieme alle parole chiave più esplicitamente riferite a Covid-19, come COVID-19 o SARS-CoV-2), betacoronavirus (36 909 articoli e 99,9% di affinità), SARS Virus (9 403 e 99,9% di affinità ), pneumonia viral (45 741 e 99% di affinità), disease outbreak (43 745 e 92% di affinità), quarantine (3503 articoli e 78% di affinità), masks (2018 articoli e 67% di affinità), Personal Protective Equipment (3700 articoli e un’affinità dell’83%). Continua a leggere su Scienza in rete
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Altre notizie
Un sistema di apprendimento automatico ha controllato il plasma all'interno di un reattore a fusione
L'intelligenza artificiale è stata sviluppata dalla società londinese DeepMind, che mette a segno l'ennesimo
successo nel confrontarsi con problemi reali a elevato livello di difficoltà. Per estrarre energia dalla fusione tra atomi
leggeri è necessario aggregarli in un plasma, uno stato della materia ad alta densità e temperatura, e mantenere
il plasma confinato all'interno del reattore per un tempo sufficientemente lungo. A questo scopo si usano dei campi magnetici
la cui intensità deve essere aggiustata continuamente tenendo conto della forma e configurazione assunta dal plasma.
Dopo essersi allenato simulando il fenomeno, il sistema di machine learning ha preso il controllo del plasma per due secondi consecutivi
all'interno del tokamak dello Swiss Plasma Center a Losanna
[MIT Technologyreview]
Abbassato ancora il limite superiore alla massa del neutrino
L'esperimento KATRIN a Karlsruhe in Germania ha misurato direttamente la massa del neutrino, una delle particelle
elementari più misteriose tra quelle che conosciamo. La massa del neutrino deve essere inferiore a 0,8 electron volt (per confronto, l'elettrone
pesa 510 mila electron volt) stando ai dati raccolti finora dai ricercatori di KATRIN. Accumulando ancora dati sarà possibile rifinire la stima
nei prossimi anni, ma non è scontato che l'esperimento sarà in grado di fissare anche un limite inferiore alla massa di questa elusiva particella
[Nature]
Con la revoca, graduale ma inesorabile, di tutte le misure di contenimento dell'epidemia le persone con sistemi immunitari compromessi vengono lasciate sole
È come se fosse stata accettata una sorta di eugenetica naturale.
«L'eugenetica - il concetto di migliorare l'umanità incoraggiando le persone "più adatte" ad avere figli e impedendo a quelle "non adatte" di farlo
- viene di solito associata all'Olocausto», dice Aparna Nair, un'antropologa dell'Università dell'Oklahoma.
«Spesso l'eugenetica viene considerata parte di un passato che è finito
ma quando una società si comporta come se la morte di persone vulnerabili fosse inevitabile,
e fa poco per diminuire i loro rischi, continua implicitamente ad assegnare un valore inferiore alle loro vite»
[The Atlantic]
Quanta energia consumano gli esseri umani?
Herman Pontzer, un antropologo dell'evoluzione alla Duke University, ha intrapreso una missione:
misurare il consumo di energia di esseri umani e primati mentre compiono diverse attività e si trovano in diverse condizioni (per esempio quando sono stressati).
Lo fa sia facendo bere ai soggetti dei suoi studi una speciale bevanda e analizzando frequentemente le urine, sia
facendo indossare dei caschi che rilevano la quantità di CO2 espirata. Le sue ricerche hanno contribuito a scardinare
alcune credenze molto radicate. Per esempio, si pensava che i primati consumassero la stessa energia in media degli esseri umani,
per unità di peso. Pontzer ha dimostrato che non è così: noi consumiamo molto di più, probabilmente per via del nostro voluminoso cervello.
Sembrava abbastanza scontato che un'intensa attività fisica corrispondesse a un maggior numero di calorie consumate, mentre Pontzer ha mostrato
che non è vero neanche questo e che probabilmente le persone che praticano intensa attività fisica diminuiscono i consumi derivanti da altri processi,
come lo stress e l'infiammazione. Ora è impegnato proprio a quantificare l'energia consumata quando siamo in uno stato di agitazione
[Science]
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