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Bioscienze in Europa, quale ruolo per l'Italia?

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Adriano Buzzati Traverso sarà ricordato come studioso, docente ma soprattutto come manager d’una ricerca senza frontiere: i suoi frequenti soggiorni all’estero, al di qua e al di là dell’Atlantico, l’avevano rapidamente convinto della necessità di sprovincializzare lo studio delle bioscienze in Italia e quindi di potenziare gli scambi con Paesi più avanzati.
La fondazione del LIGB è stato l’impresa cui ha legato il suo nome, ma qui dedicheremo una breve riflessione a un altro aspetto della sua attività; la partecipazione alla creazione dell’European Molecular Biology Organization (EMBO), diretta alla promozione della neonata biologia molecolare, e alla successiva fondazione del suo centro comunitario di ricerca sperimentale, l’European Molecular Biology Laboratory (EMBL). Nonostante la nascita del LIGB (’62) abbia preceduto di poco quella dell’EMBO (’64) e le interconnessioni tra loro siano state molteplici, le due istituzioni si sono sviluppate in modo nettamente diverso. In un decennio il LIGB ha dovuto ridimensionare le sue ambizioni, mentre l’EMBO s’è subito guadagnato un ruolo mondiale, che conserva e rafforza. Ma forse ha mancato il suo obiettivo principale, la creazione d’un centro unico e insostituibile nel suo genere; inoltre, almeno a giudizio di alcuni, ha trascurato una componente solidaristica, già presente nella visione dei padri fondatori, emarginata in nome dell’incondizionto perseguimento di un’elusiva eccellenza, e oggi rivalutata a seguito della perdurante globale crisi dei valori tradizionali.

EMBO, un bilancio a mezzo secolo dalla fondazione

È noto che l’EMBO fu concepito da un gruppo di biologi europei a immagine e somiglianza del Comitato Europeo di Ricerche Nucleari (CERN), fondato nel 1954 da alcuni fisici (tra cui Amaldi) consapevoli della gravità della situazione della fisica in Europa. Infatti, dopo la fine della seconda guerra mondiale, i fisici europei faticavano a resistere agli inviti (o alla competizione) dei colleghi attivi nelle grandi potenze egemoni. Inoltre la stessa fisica nucleare occidentale non riusciva a metabolizzare completamente la sua ‘conoscenza del peccato’, cioè il suo contributo alla produzione delle bombe atomiche. Comunque i padri fondatori ritenevano e a ragione che gli sviluppi della ricerca nucleare avrebbero richiesto strumenti sempre più complessi e costosi, proibitivi in ambito nazionale. Infine erano convinti che il CERN avrebbe contribuito a tenere alta la tradizione della fisica europea e in più a rafforzare i legami tra Paesi europei sin’allora in guerra fra loro. Né mancava un impegno di tipo solidaristico; il CERN avrebbe aiutato i Paesi minori a non perdere i contatti con i nuovi sviluppi delle ricerche che cofinanziavano. Da allora il CERN ha soddisfatto appieno questi obiettivi e i fisici italiani hanno partecipato a tutti i livelli della sua gestione, con frequenti chiamate alle direzioni generale e scientifica e con un’ampia e incisiva presenza di nostri giovani.
Dal canto loro i biologi molecolari, galvanizzati seppur con ritardo dalle scoperte della funzione del DNA (Avery et al., 1944) e della sua struttura a doppia elica (Watson, Crick et al., 1953), decisero che non potevano essere da meno dei fisici e che anche la loro disciplina esigeva un assetto sovranazionale. Nel ’64 avviarono un’organizzazione diretta al coordinamento, alla diffusione e al consolidamento delle bioscienze: per l’appunto l’EMBO. Nel giro di un decennio prese corpo una struttura espressamente dedicata alla ricerca sperimentale: a Heidelberg sorse un nuovo laboratorio (EMBL) e si attivarono le ‘outstations’ di Grenoble e Amburgo, peculiarità, si noti, inattesa e contrastante con l’unicità dell’iniziativa (non a caso il suo modello CERN di outstations non ne ha). Speciale riguardo avrebbero avuto quelle linee di ricerca fondamentali ma a costi ritenuti eccessivi persino per i membri più ‘ricchi’ della Comunità (Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia). Se l’obiettivo prioritario dell’istituenda struttura sarebbe stata l’eccellenza nella ricerca, un’attenzione particolare sarebbe andata anche alle esigenze che i membri ‘minori’ mantenessero una significativa presenza nelle bioscienze e nel perseguimenti dei suoi immancabili sviluppi tecnologici. Quanto al finanziamento, come per il CERN, i Paesi membri avrebbero contribuito in base al loro PIL (a noi tocca un 12% del bilancio) e scientificamente in base alla competenza dei loro ricercatori. I benefici sarebbero derivati principalmente alla scienza in generale, ma anche al benessere dei singoli Paesi membri. Di più concreti ‘ritorni’ quantitativamente rapportabili ai contributi era rigorosamente proibito parlare: contava l’eccellenza della ricerca, a volte autocertificata, grazie anche a una stampa più che amica, ‘di casa’, ma disponibile solo a pagamento persino ai ricercatori cooptati come soci EMBO (oggi siamo oltre 1500).

Da questo quadro si intravede oggi una seria inadempienza rispetto alla missione dell’EMBO e in particolare dell’EMBL, specie se confrontato al CERN. Infatti negli ultimi 50 anni è diventato chiaro che le bioscienze non richiedono apparecchiature paragonabili per complessità e costi a quelle del CERN, peraltro approntate seguendo un encomiabile programma di graduale e coerente potenziamento: l’LHC che ha appena permesso l’individuazione del bosone di Higgs è lo stadio più recente ma d’un accrescimento fisiologico di acceleratori assemblati oltre mezzo secolo fa; e queso spiega l’accettazione da parte dei Paesi membri di costi migliaia di volte superiori a quelli dei più sofisticati strumenti usabili o ipotizzabili dai biomolecolari. Analogamente i progetti di ricerca più complessi delle bioscienze (ad es. il Progetto Genoma Umano) rispetto ai progetti dei fisici sono di dimensioni tali che persino singoli gruppi privati (vedi la Celera di Venter) possono avviarli in competizione con cordate pubbliche internazionali. Ne deriva che un laboratorio come l’EMBL di Heidelbrg e le sue attuali quattro outstation (negli anni ‘90 sono sorte quelle di Cambridge e Roma) ne hanno esteso le competenze, ma non colmato le carenze di unicità e indispensabilità universalmente riconosciute al CERN. Certo nel frattempo l’EMBL ha raggiunto livelli qualitativi buoni ma non superiori a quelli di altri grandi istituti di ricerca biomedica sparsi per il mondo, e comunque difficilmente paragonabili a quelli del CERN.
È incontestabile che le ricerche svolte dai diversi centri dell’EMBL potrebbero avere luogo anche lì; in più è preoccupante l’inevitabile tendenza a integrarsi nei programmi dei Paesi ospiti, originando seri conflitti d’interessi.

In breve dobbiamo ricordare che (1) le attività svolte dai diversi centri EMBL gravano su bilanci comunitari e quindi su tutti i Paesi membri; (2) il personale impiegato nei diversi centri (specie nei maggiori) è in prevalenza ‘indigeno’; (3) le linee di ricerca inevitabilmente interagiscono con gli interessi locali. Così i risultati ottenuti dai laboratori di Heidelberg e di Cambridge (i più grandi, dove operano molte centinaia di ricercatori) sono rilevanti per la ricerca comunitaria o addirittura mondiale; ma concorrono anche e sensibilmente al progresso dei Paesi ospiti sia con il loro alto numero di occupati a elevata qualificazione sia con significative ricadute tecnologiche. 
Basti ricordare che nel 2013 su oltre cento capigruppo attivi complessivamente nell’EMBL c’è solo un’italiana, e che l’Italia non ha mai avuto una direzione generale e solo la direzione di una outstation, quella di Cambridge, la cui fondazione fu affidata negli anni ‘90 a Paolo Zanella (proveniente dal CERN!). Radicalmente diversa è la situazione dell’outstation di Roma: la struttura è piccola (circa un decimo dei centri inglese e tedesco), il tema assegnatole riguarda la genetica del topo, poco familiare agli interessi della nostra esigua comunità biomolecolare. Tutto questo si traduce nel fatto che, dalla sua fondazione nel 1994, direzione generale e responsabilità operative della outstation di Roma paradossalmente sono appannaggio di esperti d’ogni nazionalità, ma non d’italiani. 
Inutile dire che nessuno degli altri centri mostra una simile anomalia: i ricercatori che ospitano sono in prevalenza ‘indigeni’, i temi studiati sono vicini agli interessi dei Paesi ospitanti e le applicazioni contribuiscono al progresso nazionale.

Quale ruolo per l'Italia?

Emerge quindi la necessità d’una seria riflessione sul nostro ruolo nel sistema EMBO/EMBL. Non è in discussione la sua aspirazione all’eccellenza, ma non può esser ulteriormente rinviata una seria discussione sulla questione del rapporto costi/benefici per i membri: il progresso generale della scienza oggi non può essere considerato un ‘ritorno’ sufficiente per i Paesi che vi contribuiscono col sacrificio della ‘loro’ scienza. Non possiamo fingere d’ignorare che le risorse contribuite dai Paesi scientificamente meno sviluppati vengono sottratte al già magro sostegno che questi danno alla loro ricerca nazionale. Per i Paesi più sviluppati si verifica il fenomeno opposto: la crescente identificazione delle linee di ricerca comunitarie con temi vicini a interessi nazionali finisce col trasformare il contributo di tutti una forma di sostegno all’ipersofisticata ricerca di alcuni.

In sintesi, per i Paesi meno sviluppati la partecipazione all’EMBL si traduce in una crescente penalizzazione della loro ricerca, spesso già sottofinanziata, e quindi del loro benessere, della loro cultura e delle prospettive di lavoro dei loro giovani, fortemente legate al livello scientifico del Paese. Lo testimonia il caso Italia. Dati i meccanismi di cooptazione che in ambito EMBO/EMBL regolano l’elezione dei soci e la nomina dei direttori, la situazione non potrà che peggiorare a meno che non si riveda l’intero sistema: i ricercatori inglesi vengono cooptati a un ritmo che è nettamente volte più alto che per gli italiani. Il sistema in vigore da 50 anni ormai è quindi sempre più svantaggioso per i Paesi meno avanzati che finiscono col fare i portatori d’acqua per i Paesi leader.
Le soluzioni oggi disponibili sono poche: scartiamo la possibilità di uscita unilaterale e polemica, col rischio d’una recisione d’un vitale legame con la comunità scientifica mondiale, oltre alla perdita degli investimenti sinora versati. Ma rigettiamo anche la possibilità di continuare così (en attendant Godot). Una possibile exit strategy potrebbe contemplare la ‘nazionalizzazione’ delle attuali strutture di ricerca dell’EMBL, che di fatto già esiste seppure con sfumature diverse (l’outstation di Cambridge ha realizzato una forte integrazione con la ricerca praticata dal Paese ospitante, anche in questo risultando ben diversa da quella di Roma). Le singole strutture verrebbero rilevate dai Paesi ospitanti contro un equo pagamento che tenga conto del loro valore, della loro fruizione nel tempo e d’altre variabili quantificabili. Beneficiaria dei pagamenti dovrebbe essere l’EMBO stessa che potrebbe gestire nel tempo il pingue ricavato per ottimizzare coordinamento e potenziamento d’una ricerca biomolecolare più genuinamente comunitaria, anche nella sua veste di autorevole consulente degli enti finanziatori europei e non solo. Una simile soluzione comporterebbe l’eliminazione dei cospicui contributi annuali imposti dal finanziamento delle attività sperimentali dell’EMBL: queste risulterebbero così appannaggio e responsabilità dei Paesi che ne ospitano i rispettivi centri.
La definizione dei dettagli di una simile conversione richiederà laboriose riflessioni e delicati compromessi, ma la sua validità poggia su due basi solide: 1) il riconoscimento che oggi i costi operativi della biologia molecolare e in particolare quelli per apparecchi e strumenti, abbordabili dai Paesi singoli e seppur di molto inferiori a quelli della fisica nucleare, restano comunque cospicui per Paesi che come l’Italia li negano alla loro ricerca sientifica: a noi l’appartenenza all’elitario club EMBO/EMBL costa qualche decina di milioni di € l’anno;
2) l’inaccettabilità di accordi che in pratica obblighino Paesi in difficoltà a trascurare la loro ricerca nazionale per finanziare di fatto la ricerca di Paesi egemoni, ma senza ritorni e anzi con danni per i suoi finanziatori coatti e misconosciuti.

Qualcuno dovrebbe ricordare ai colleghi inglesi e tedeschi che l’eccellenza dei loro Paesi nelle bioscienze è pagata in parte dall’Italia. Ma questo qualcuno dovrebbe essere uno scienziato cosmopolita, illuminista e battagliero come è stato Adriano Buzzati Traverso, attento osservatore della ricerca nazionale e internazionale: in quanto tale è probabile che oggi avrebbe qualche perplessità nell’accettare l’attuale ’ruolo dell’Italia nell’EMBO/EMBL’. Infatti si deve ricordare che così l’autorevole Science titolava la denuncia che alcuni suoi allievi (tra cui chi scrive) in una lettera pubblicata nel lontano 1994: le loro doléances contribuirono a farci assegnare l’outstation di Roma. Una vittoria di Pirro, vista la sua evoluzione scientifica-gestionale che sta contribuendo poco a migliorare una situazione allora per noi difficile e oggi penalizzante.


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