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La ricerca ai tempi della crisi

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La ricerca, ai tempi della crisi. Secondo l’irlandese Patrick Cunningham, professore di genetica animale e già consigliere scientifico del governo di Dublino, occorre ripensarla. Rimodulandone le priorità. In un articolo pubblicato oggi, 24 ottobre, su Nature, Cunningham rileva che siamo nel pieno di una recessione economica. Che per uscirne occorre non diminuire, ma aumentare gli investimenti in ricerca e sviluppo. Soprattutto quelli pubblici. Portandoli, in Europa, ad almeno l’1% del Prodotto interno lordo (Pil). Che occorre puntare sulla ricerca che promette immediate ricadute economiche.
Patrick Cunningham ha il grande merito di sottolineare la centralità che ha la “questione scientifica” non solo in ambito culturale, ma anche sociale ed economico. Tuttavia la sua analisi e la sua proposta meritano alcune puntualizzazioni.
In primo luogo occorre rilevare che solo una parte del mondo è in crisi e solo una piccola parte del mondo (l’Europa) è in recessione. Il prodotto interno lordo del pianeta, anche dopo il 2007, ha continuato ad aumentare, anche se con ritmi leggermente inferiori agli anni precedenti. Non è vero che gli investimenti globali in ricerca e sviluppo sono stabili. È vero, invece, che sono aumentati, anche al netto dell’inflazione: mai il mondo ha investito così tanto in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico. Mai il mondo ha avuto così tanti ricercatori: oltre 7 milioni.
In questi tempi di crisi di una parte del mondo (l’Europa, in parte gli Stati Uniti e il Giappone) ad assicurare non solo la crescita economica, ma anche l’aumento sia degli investimenti in ricerca sia dei ricercatori (le risorse umane, come si dice con un brutto termine) sono stati soprattutto i paesi dell’Asia orientale (Cina, Corea, India e una costellazione di una dozzina di altre nazioni), ma anche paesi a economia emergente di altre zone del mondo: come il Brasile, in America latina; come il Sud Africa nel continente nero; come la Turchia e l’Iran, oltre che Israele, in Medio Oriente.

Al netto di tutto questo, ha ragione Patrick Cunningham: l’Europa stenta a tenere il passo. Malgrado gli impegni di Lisbona (2000), di Barcellona (2002) e le recenti riaffermazione del presidente della Commissione, Barroso, l’Unione non ha raggiunto l’obiettivo che si era prefissata: investire in R&S (ricerca e sviluppo) entro il 2010 almeno il 3% del Pil (1% di fonte pubblica; 2% di fonte privata) per tentare di affermarsi come leader dell’economia della conoscenza.
A tutt’oggi gli investimenti in ricerca dei 28 paesi dell’Unione sono sotto il 2% del Pil. E anche gli investimenti pubblici non superano lo 0,7% in media. Patrick Cunningham sostiene, giustamente, che se l’Europa vuole tentare di uscire dalla spirale della recessione deve aumentare gli investimenti pubblici in R&S, portandoli ad almeno l’1% del Pil. Perché è dimostrato (si veda il libro di Mariana Mazzucato, The Entrepreneurial State, Anthem, 2013; ma anche un precedente libro, The Truth About the Drug Companies: How They Deceive Us and What to Do About It, Random, 2004, di Marcia Angell, già direttore del New England Journal of Medicine) che la gran parte della capacità di produrre nuova conoscenza e grande innovazione dipende dagli investimenti pubblici.
In realtà il problema della ricerca in Europa è molto più articolato. Per brevità possiamo dire che, oltre al fattore investimenti (inferiori, in termini relativi, a quello di Stati Uniti, Giappone e di molti paesi a economia emergente) c’è un fattore frammentazione e un fattore formazione. Questi due problemi, insieme a quello indicato da Cunningham, sono stati messi in evidenza dal “manifesto” lanciato lo scorso 16 novembre a Bruxelles da due europarlamentari italiani, Amalia Sartori – presidente della Commissione industria, ricerca ed energia – e Luigi Berlinguer, già Ministro per l’istruzione, l’università e la ricerca del governo italiano alla fine degli anni ’90, alla presenza del Commissario europeo alla Ricerca, l’irlandese Máire Geoghegan-Quinn.
La frammentazione deriva dal fatto che solo il 7% della spesa europea in ricerca avviene a scala continentale a opera della Commissione. Il 93% avviene ancora a opera dei 28 stati nazionali. Ne risulta una politica della ricerca non solo poco organica, ma spesso addirittura divergente.
Per questo Amalia Sartori e Luigi Berlinguer chiedono la realizzazione, finalmente, dell’antico progetto di Antonio Ruberti: creare un’Area comune della Ricerca. Che dovrebbe, secondo i due europarlamentari. Concretizzarsi in maggiori infrastrutture comuni, carriere comuni, cooperazione e coordinamento. Sono indicazioni che vanno nella direzione di porre un argine alla frammentazione. Ma probabilmente non bastano. Occorrerebbe realizzare gli obiettivi di Barcellona: 3% di investimenti in R&S rispetto al Pil, imponendo a tutti i paesi, quasi come un vincolo di Maastricht, di convergere in breve tempo verso questo obiettivo. Inoltre occorrerebbe aumentare la quota di investimenti decisi a Bruxelles, per avere una politica della ricerca finalmente comune.

Già, ma quale politica?
Patrick Cunningham sostiene che bisogna puntare sulla ricerca che promette un’immediata ricaduta economica. È vero: l’Europa ha più difficoltà di altri paesi e/o gruppi di paesi a trasformare la conoscenza prodotta nei laboratori in beni e servizi innovativi. Tuttavia non bisogna dimenticare il concetto fondamentale su cui Vannevar Bush, nel 1945, ha redatto il suo "Science, the Endless Frontier", che costituisce il manifesto della moderna politica della ricerca: è la scienza di base (oggi diremmo curiosity-driven) il motore della produzione di nuove conoscenze e, dunque, dell’innovazione. Un’indicazione che Mariana Mazzucato e Marcia Angell hanno dimostrato essere più che mai valida. E che appare pericolosamente appannata in Horizon 2020, il Programma quadro della ricerca europea che partirà il prossimo anno. Riprendiamo l’indicazione di Vannevar Bush e assicuriamo che in Europa almeno il 20% degli investimenti pubblici in R&S siano destinati alla ricerca di base o curiosity-driven che dir si voglia.

C’è, infine, un altro fattore che l’Europa deve tenere in considerazione: la formazione dei giovani. Attualmente solo il 35% dei giovani europei di età compresa tra i 25 e i 34 anni ha una laurea. Contro una media del 40% dei paesi OCSE e contro il quasi 60% di paesi come Giappone, Russia e Canada. O, addirittura, contro il 64% della Corea del Sud. L’Europa deve recuperare rapidamente questo gap e assicurare a un numero maggiore di giovani una formazione universitaria se vuole entrare da protagonista nella società e nell’economia della conoscenza. Se vuole avere cittadini in grado di cogliere tutte le opportunità della società e dell’economia della conoscenza. Il recupero del gap cognitivo deve essere ancora più rapido e determinato per quei paesi, come l’Italia, dove a laurearsi è meno del 20% dei giovani. Ecco, oltre agli obiettivi indicati da Patrick Cunningham e a quelli di Sartori e Berlinguer, occorrerebbe aggiungerne un altro: raggiungere in Europa un tasso di giovani laureati pari ad almeno il 50%.
L’Unione uscirà dalla crisi se oltre ai parametri del rigore finanziario saprà rispettare i parametri dello sviluppo cognitivo. Che, come rileva lo stesso Patrick Cunningham, è il primo degli indici di sviluppo umano.


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