Gli "uomini primitivi" sono migliori o peggiori degli "uomini moderni"? La domanda è un po' grossolana, si presta a polemiche e fraintendimenti, ma alla fine spiega bene l'intento molto ambizioso dell'ultimo libro di Jared Diamond: "Il mondo fino a ieri". Al grande ecologo e cultore di storia ambientale di Cambridge non è bastato tentare di ricostruire la storia "degli ultimi tredicimila anni" incrociando demografia, storia della medicina e scienze ambientali in "Armi, acciaio, malattie" (1997). Nemmeno di spiegare le ragioni dei crolli delle grandi civiltà del passato in "Collasso" (2005). Con il nuovo libro, Diamond ha voluto mettere a confronto le superstiti società tradizionali (come gli aborigeni australiani e le piccole tribù della Nuova Guinea che Diamond ha frequentato per decenni per studiarne ecologia e avifauna) e le nostre società moderne. Dalle somiglianze e soprattutto dalle differenze impariamo a conoscerci meglio, a catturare alcuni lembi di verità su quanto nell'uomo si possa far derivare dalla natura o dalla cultura.
Natura e cultura
Anche questa, di intende, è una grossolana semplificazione peraltro contestata da molti antropologi a Diamond. Per quanto più vicini alla natura, la vita degli uomini delle società tradizionali - quelle per intenderci sprovviste di Stato, scrittura, burocrazia, eserciti stabili, un corpo di leggi scritte, complessi apparati tecnico-produttivi - è a sua volta pienamente culturale. E forse una delle maggiori sorprese del libro è che può essere a volte anche più culturale, umana e consapevole di quella di noi "moderni".
Diamond tiene il libro sul registro della chiacchierata, con ciò garantendosi l'odio imperituro degli accademici, che non hanno mancato di sottolineare le numerose semplificazioni dell'autore. L'intento delle sue numerose osservazioni antropologiche sul campo, integrate con una sintesi delle principali ricerche condotte su una quarantina di società tribali sparse sul pianeta - è di vedere prima di tutto se sia possibile trarre qualche insegnamento da stili di vita così diversi dai nostri. Ma quel che resta da questo libro è qualcosa di più: l'abbozzo di una risposta alla domanda: in cosa consiste la natura umana? Quanto dipende dai condizionamenti storici e sociali e quanto rimanda a caratteristiche universali e - per così dire - immutabili? In questo Diamond sembra più in sintonia con i grandi classici del pensiero filosofico e antropologico che con i suoi contemporanei. Da qui il fascino del libro.
L'ambiente guida anche l'evoluzione storica?
Per sgombrare da subito il campo da possibili accuse di razzismo, Diamond vuole rispondere alla domanda del perché alcune società hanno imboccato la via della modernità, mentre altre sono ancora allo stadio dell'ascia, degli archi e delle frecce. La ragione secondo Diamond è eminentemente ambientale: solo una dozzina di luoghi sulla Terra hanno avuto la ventura di ospitare specie selvatiche (animali e vegetali) che si prestavano alla domesticazione. Questo ha provocato, circa 11.000 anni fa, il passaggio da un'economia di cacciatori-raccoglitori a una agricola. La produzione stabile e massiva di cibo ha a sua volta fatto crescere le popolazioni di queste zone (a partire dalla Mezzaluna fertile). Ed è sostanzialmente la crescita demografica e l'addensarsi in città che porta, intorno al 3.500 aC alla nascita dei grandi apparati statali con tutto ciò che ne segue.
Ai margini della Storia maggiore di queste società vivono piccoli popoli integrati in ambienti refrattari alla domesticazione e alla produzione agricola di massa: dotati di lingue che variano nello spazio di pochi chilometri, si formano così decine e decine di tribù - formate ciascuna da poche centinaia di persone – che convivono in precari equilibri con le tribù vicine. Nelle società tradizionali possiamo comprendere anche insiemi più popolosi, frutto dell'unione di più tribù, che vanno a formare Chiefdoms già più articolati e complessi nella loro organizzazione. E' il numero delle persone - determinato dalle tecniche agricole e di allevamento - che alla fine decide della complessità di un insieme sociale.
Non esiste il buon selvaggio
Il confronto fra "noi" e "loro" parte delle guerre. E da subito si capisce che non c'è nulla di più sbagliato del mito del buon selvaggio: le società tradizionali vivono di fatto in uno stato permanente di guerra, con imboscate, vendette, ritorsioni continue, che non risparmiano donne e bambini. Mentre le guerre moderne - ipertecnologiche - possono uccidere in un botto migliaia di persone, le guerre fra tribù contano poche vittime. Ma secondo Diamond lo stillicidio è continuo, di solito non si fanno prigionieri, e talvolta gli scontri terminano in un massacro.
Anche da un punto di vista quantitativo, se si pesa il numero dei morti in relazione alla popolazione, il tasso di mortalità bellica all'anno è superiore fra le tribù piuttosto che fra gli stati: fra i Dani della nuova Guinea il tasso, per esempio è dell'1% all'anno, mentre in Germania e in Russia (i due stati con maggior numero di perdite per conflitti nel corso del Novecento) il tasso è 0,5%. La guerra nelle società moderne è uno stato eccezionale, in cui si chiede ai cittadini, educati al rispetto del prossimo, di uccidere altre persone per il solo fatto di appartenere a un esercito nemico. Fin dai primi anni di vita, invece, i bambini delle società tradizionali vengono addestrati a uccidere un loro simile in caso di scontri. Lo stato di guerra cronica nelle società tradizionali, secondo Diamond, si riduce con le dominazioni coloniali e gli stati di polizia che questi spesso hanno determinato: tesi questa fortemente contestata da Survival International, che ha notato come Diamond non abbia speso nemmeno una parola sui massacri compiuti proprio dai nuovi dominatori nei confronti dei popoli tribali soggiogati. Se questo in parte è vero, sembra difficile invece contestare il fatto che lo "stato di natura" sembra coincidere con una condizione di guerra continua a bassa intensità, come peraltro troviamo anche nella società animale a noi più vicina: quella degli scimpanzé. Anche le evidenze archeologiche mostrano chiaramente come le guerre fossero pane quotidiano fin dai tempi più remoti.
A cosa serve la guerra?
E' vero, dice Diamond, ci sono alcuni popoli che sembrano esserne esenti, ma si tratta di piccole bande nomadiche di cacciatori-raccoglitori che vivono in ambienti desertici, con densità di popolazione bassissime e quindi con nessuno intorno e senza proprietà da difendere. Tra questi vanno annoverati gli Indiani Scioscioni nelle grandi pianure delll'America settentrionale, gli Indiani Siriono in Bolivia, alcune tribù australiane, i Nganasan della Siberia settentrionale e gli Indiani Machiguenga del Perù. Appare poco sensato dire che vi sono alcuni popoli pacifici e altri votati alla guerra "per natura": tutto dipende in realtà dalle circostanze che possono indurre o meno a prendere le armi contro un nemico. Stesse considerazioni valgono - secondo Diamond - per popoli tradizionalmente visti come "gentili" (come i Semang, !Kung e i Pigmei africani) che a ben vedere hanno dinamiche fortemente violente al loro interno. "Tutte le società umane praticano sia la violenza sia la cooperazione; quale delle due diventa predominante dipende dalle circostanze".
Quali sono i benefici di vincere una guerra? in ordine sparso si possono elencare bambini catturati, mucche, cavalli, maiali, nuove terre e risorse (come laghi in cui pescare, orti e campi da coltivare, cave dalle quali estrarre minerali), proteine, schiavi, diritti commerciali. E, last but not least, donne. Le motivazioni per cui si attacca briga con un nemico si riconducono spesso alla vendetta per torti passati, al conflitto per il possesso di terre, ma anche all'idea che il vicino sia intrinsecamente cattivo e meritevole di essere spazzato via. Ma alla fine, il vero motivo scatenante è l'acquisizione di nuove risorse ai danni dei vicini. Analizzando anche la storia dei grandi Stati, il tasso di guerre è più alto fra coloro che sono legati da relazioni di prossimità sanciti da numerosi matrimoni e rapporti commerciali. Si litiga - e ci si ammazza - più facilmente fra familiari che fra estranei. Tuttavia nelle società più complesse una fitta rete di norme (morali e legali) cerca di imbrigliare l'esercizio della violenza.
I nostri bambini e i loro
Un terzo esatto del libro di Diamond se ne va dunque a smontare il mito del buon selvaggio: almeno sul fronte delle guerre non sembra che si abbia molto da imparare dalle società tribali. Diverso invece quando ci volgiamo ad altri ambiti, come l'educazione dei bambini. A Los Angeles (dove Diamond vive quando non è in Nuova Guinea sulle tracce dei suoi amati uccelli) e in genere nelle nostre società WEIRD (Western, educate, industrial, rich, democratic), i bambini vengono educati in scuole, vengono protetti dalla polizia e non direttamente dalle famiglie, giocano e si relazionano rigorosamente divisi per fasce di età e dormono in camere separate rispetto ai genitori. Proprio il contrario di quanto avviene in molte società tradizionali, dove nei primi anni di vita i bambini vengono cresciuti in un contesto di forte accudimento: si dorme spesso nello stesso letto, li si allatta a richiesta e non a orari fissi, li si consola immediatamente quando cominciano a piangere, e non si fa un uso particolare di punizioni. Questo almeno nelle società tribali più egualitarie di cacciatori-raccoglitori (come i Piranha, gli Andamani, i Pigmei a !Kung), mentre nelle società di agricoltori-pastori, dove le diseguaglianze e le gerarchie sono pronunciate, l'educazione tende a dividere per età e genere e si dà spazio alla deferenza verso i più grandi/potenti, e conseguentemente alle punizioni.
Maggiore accudimento e gentilezza, peraltro, nelle società di cacciatori-raccoglitori si sposano anche con una maggiore autonomia dei bambini, che sostanzialmente non hanno limitazioni in ciò che fanno: da brandire armi (partecipano da subito alla caccia) a muoversi liberamente in contesti ambientali spesso anche piuttosto pericolosi (presenza di animali feroci e velenosi). Certo si rischia di più, ma si forgiano anche individui più sicuri di sé ed equilibrati. Anche più creativi, ad avviso di Diamond, visto che a differenza dei bambini WEIRD i cui giocattoli sono belli che pronti nei negozi, i bambini "tribali" i giochi se li costruiscono per conto loro. E soprattutto non ricevono un'educazione formale a scuola ma affinano le loro competenze in sessioni di gioco e socializzazione non solo con coetanei ma con ragazzi di tutte le età, nonché partecipando da subito alla vita dei genitori. Una sorta di educazione permanente forgiata sull'esempio, certo più rischiosa ma apparentemente più attiva e autonomizzante. Forse - suggerisce Diamond - potremmo fare nostri alcuni ingredienti di questa educazione pur all'interno di una società alquanto più protettiva e sicura, che infatti garantisce - rispetto alle società tradizionali - una bassissima mortalità infantile.
i loro anziani "inutili" solo alla fine
Se dai bambini passiamo agli anziani, si resta abbastanza scossi dal numero di società tradizionali in cui i vecchi vengono eliminati quando non più utili o spinti a commettere suicidio. Anche la speranza di vita alla nascita è - come ci si può immaginare - molto bassa, e solo il 2% della popolazione arriva in queste società a superare i 65 anni, rispetto alla schiera di ottanta-novantenni che nelle nostre società pongono piuttosto il problema opposto dell'inversione della piramide demografica, della piaga delle malattie neurodegenerative e di un tramonto spesso non molto soddisfacente, magari in ospizio o rifilati a badanti. Insomma, ci sono i pro e i contro. D'altro canto, gli anziani nelle piccole società tribali hanno fino all'ultimo funzioni importantissime di leadership, trasmissione culturale dei valori e delle memorie, oltre a svolgere funzioni di primo piano nell'allevamento ed educazione dei bambini. Come a dire: è vero che in molte piccole società tribali (soprattutto nomadiche) gli anziani alla fine si lasciano morire perché si sentono ormai inutili al resto del gruppo. Una tradizione certo non facile da accettare. D'altra parte nelle nostre società gli anziani hanno il privilegio di sopravvivere spesso anche molto a lungo alla perdita del loro ruolo sociale e lavorativo. Non c'è la morte, ma spesso una crescente solitudine.
Non sottovalutare i pericoli
Nel libro ci si imbatte più volte nel tema dei pericoli che insidiano la vita nelle società tradizionali. Vivere nella foresta tropicale o negli sperduti altopiani di Papua Nuova Guinea è indubbiamente più pericoloso che abitare a Manhattan o a Berlino. Qui Diamond si lascia più andare al gustoso racconto delle sue esperienze a contatto con le tribù della Nuova Guinea, riferendo di una serie di rischi naturali che di fatto rendono gli indigeni affetti da una sorta di atteggiamento di cautela paranoica ("constructive paranoia", la chiama l'autore). Per i popoli che vivono nelle foreste, per esempio, uno dei rischi naturali più significativi è morire schiacciati da un albero che cade, ragione per cui ci si guarda bene dal piantare la tenda sotto le fronde di un albero. Altrettanto frequenti i rischi di incappare in insetti o serpenti velenosi (o per !Kung frecce avvelenate), in un incendio, un fulmine, o cadere da un albero mentre si tenta di scalarlo. Qui Diamond nota come vecchi e giovani si scambino continuamente informazioni su come evitare questi pericoli in interminabili storie e chiacchierate intorno al fuoco, volto proprio costruire quell'atteggiamento di grande cautela e circospezione che caratterizzano il modo di fare degli indigeni fin dai primi anni di vita.
Altri pericoli sono la violenza, le carestie e le malattie infettive (in particolare trasmesse da parassiti e insetti). Per ciascuno di questi pericoli è interessante vedere il tipo di risposte messe a punto per prevenirli: da regole di particolare circospezione nel trattare con estranei; al semi nomadismo per cambiare spesso terreni contro il rischio di carestia, o particolari strategie di differenziazione alimentare, per cui si cominciano a mangiare piante in tempi normali considerate non commestibili; allo straordinario sviluppo di medicine tradizionali (basate in gran parte su piante) e pratiche igieniche per ridurre l'impatto di infezioni e malattie.
E' dura insomma la vita dei popoli tribali, e per nulla invidiabile rispetto alla straordinaria sicurezza e longevità raggiunte dalle popolazioni WEIRD. Ma anche qui forse un insegnamento di può trarre dall'osservare - come fa l'autore - quanto sia sviluppata, realistica e accurata la percezione dei rischi dei popoli "primitivi" e quanto invece falsata sia la nostra. Perché altrimenti avremmo così paura di fare un viaggio in aereo piuttosto che uno in automobile? A una paranoia cautelativa dei nostri cugini fa da contraltare una nostra paranoia che enfatizza rischi minimi o inesistenti e ignora rischi reali. Forse si potrebbe interpretare anche così la celebre formula di "società del rischio" coniata da Ulrich Beck una ventina di anni fa?
Il posto del soprannaturale
L'ultima sezione del libro di Diamond affronta altre importanti dimensioni della vita, quali la religione, il linguaggio e la salute. Da buon biologo evoluzionista, l'autore azzarda una spiegazione del sorgere e diffondersi delle religioni come una sorta di sottoprodotto di crescenti capacità di ragionamento in merito al principio di causalità: non molto diversamente da quanto già aveva ben illustrato il grande filosofo scozzese David Hume nel suo Storia naturale della religione (1755), il sorgere di credenze nel soprannaturale sarebbe frutto di una sovrageneralizzazione che riconosce statuto di agente anche a cose, piante e animali. Se dal perché passiamo a porci un'altra domanda: quando sono sorte le prime forme di pensiero religioso, Diamond così risponde: "molto gradualmente, mano a mano che il nostro cervello diventava più sofisticato. Più di 15.000 anni fa l'uomo di Cro-Magnon già confezionava vestiti, inventava nuovi utensili, e realizzava superbi dipinti di animali e uomini variopinti nelle grotte di Lascaux, Altamira e Chauvet, visibili solo alla fioca luce di candele. Che lo facessero o meno per ispirare qualcosa di simile a un sentimento religioso, i nostri antenati avevano già un cervello abbastanza sviluppato per albergare sentimenti religiosi. (…) Mi sembra prudente ipotizzare che i nostri antenati abbiano avuto sentimenti religiosi a partire da almeno 60.000 anni fa".
Ma se in epoca prescientifica la religione ha avuto un importante ruolo ermeneutico, perché essa sopravvive in un'epoca impregnata di ragione scientifica? Forse perché le funzioni evolutive della religione sono anche altre: dalla rassicurazione davanti all'ignoto e al non prevedibile, al conforto quando la vita si fa dura, rappresentato da una vita ultraterrena. A queste tre funzioni "universali" (spiegazione, rassicurazione, conforto) si aggiungono altre quattro funzioni di natura sociale che non si osservano nelle società tribali e che sorgono invece nella millenaria evoluzione degli Stati organizzati, e che ora di nuovo stanno scemando con l'avanzare della secolarizzazione: il far parte ordinata di un'organizzazione fortemente gerarchica e ritualizzata, l'indurre all'obbedienza politica, il regolare eventuali comportamenti distruttivi verso gli estranei coll'imposizione di regole morali, e il giustificare le guerre.
Indubbiamente le credenze religiose continuano a svolgere importanti funzioni adattative, anche se per il tramite di mezzi irrazionali. Anzi tutto sommato si potrebbe anche misurare la fitness adattativa delle diverse religioni e confessioni ordinandole per tasso di diffusione e di crescita, come si diverte a fare Diamond, concentrandosi più che sui grandi monoteismi, su alcune realtà apparentante marginali, come i Mormoni, che mostrano il più alto successo riproduttivo.
Tornando alle sette funzioni incarnate dalle religioni, Diamond ne delinea l'andamento temporale in una sorta di borsino delle superstizioni: se le prime due funzioni (spiegazione soprannaturale e rassicurazione), sorte circa 50.000 anni fa sono ora in forte declino per l'affermarsi di società a forte impronta tecno-scientifica, la terza (conforto) non sembra subire particolari flessioni, mentre le ultime quattro (organizzazione rituale, obbedienza politica, valori morali e giustificazione di guerre) sono in costante calo dall'affermarsi della secolarizzazione dopo il diciassettesimo secolo. Ma nulla è definitivo. Come oggi assistiamo alla ripresa di guerre di religione sotto forma di terrorismo, così l'immiserimento della popolazione mondiale a causa di una grave crisi economica, l'arretramento dell'educazione scientifica (o, aggiungiamo noi, una parossistica scientificizzazione della vita) possono determinare il riaccendersi di sopite superstizioni nel soprannaturale.
L'estinzione delle lingue
Quante lingue si sono al mondo? Provate a indovinare. I più riusciranno a enumerarne qualche decina. Invece sono 7.000! E qui la palma va davvero alle piccole società tribali, dove si concentra il maggior numero di lingue diverse, talvolta separate da pochi chilometri di distanza. Infatti, se Europa e Russia non arrivano a contare 100 lingue, nel solo subcontinente indiano ce ne sono più di 1.000, 527 solo in Nigeria e 286 in Cameron, 110 alle isole Vanuatu e circa 1.000 in Nuova Guinea. Ovviamente da quante più persone le lingue sono parlate più esse sono stabili: è il caso delle nove lingue più diffuse al mondo, nell'ordine mandarino, spagnolo, inglese, arabo, hindi, bengali, portoghese, russo e giapponese. Le "piccole lingue" delle tribù (alcune parlate da qualche decina di persone) si estinguono invece al ritmo di una ogni 9 giorni. Con il rischio che entro il 2100 il più di queste non esistano più.
Anche le lingue, come le specie animali e vegetali, hanno alcune regole che sovrintendono alla loro diffusione. E che spiegano perché territori tutto sommato piccoli come le Vanuatu o la Nuova Gunea possano contare su una diversità linguistica così enormemente superiore a quella delle grandi aggregazioni statali moderne. Ciò avviene in primo luogo perché anche la diversità linguistica decresce dall'Equatore verso i Poli. A parità di latitudine, invece la diversità linguistica decresce con la variabilità climatica, mentre cresce negli ambienti più produttivi (più lingue nella foresta pluviale che nei deserti, per intenderci). Infine la frequenza di lingue tende a crescere in regioni caratterizzate da più habitat, o in regioni montuose rispetto a quelle pianeggianti. Ecco perché - alla luce di queste quattro leggi ecologiche dei linguaggi naturali, la Nuova Guinea ne è così ricca: essa infatti è umida, fertile, estremamente produttiva di specie, varia climaticamente, e caratterizzata da habitat molto diversificati, da montagne impervie, laghi, fiumi, savane, coste e foreste. A questi fattori naturali si affiancano poi determinanti sociopolitici e demografici che moltiplicano le lingue in ragione inversa alla densità demografica e alla complessità della organizzazione politica del paese.
Così, al nostro monolinguismo di abitanti di grandi stati si contrappone un multilinguismo delle piccole società tribali, dove è normale conoscere le cinque-sei lingue delle tribù vicine con le quali si commercia, si guerreggia e si scambiano le donne. Ma la marea del monolinguismo sta conquistando sempre nuovi territori, se si pensa che già oggi, su 192 stati riconosciuti, solo 70 hanno la l "loro" lingua nativa, mente gli altri condividono le nove grandi lingue viste prima. Qualche piccola lingua si salverà grazie ad apposite leggi che le riconoscono come lingue nazionali (è il caso delle isole Faroe e dell'Islanda). Ma altre, senza questo riconoscimento, vengono progressivamente erose dalla globalizzazione linguistica, perdono la lingua nativa e conoscono i ben noti problemi di disintegrazione identitaria e culturale che portano - si veda il caso degli Aborigeni australiani - a gravi fenomeni di anomia, violenza e abuso di sostanze.
Obesità e globalizzazione
La globalizzazione, che dalla nostra prospettiva di cittadini del "primo mondo" mostra anche aspetti positivi, si ripercuote duramente sui "piccoli popoli". Anche sulla loro salute. Un esempio? Si prenda i tassi crescenti di diabete e obesità in luoghi come la Nuova Guinea, fino allora praticamente esenti da queste condizioni. Il diffondersi di stili di vita occidentali ha fatto schizzare verso l'alto la prevalenza di diabete e obesità in alcuni paesi che si sono rapidamente occidentalizzati, complice anche una particolare suscettibilità genetica da parte di queste popolazioni a sviluppare queste malattie quando sono passati da un regime di estrema scarsità alimentare a uno di improvvisa abbondanza. Così i paesi che ora si affacciano finalmente a un maggior benessere si trasformano in breve tempo in vittime delle più diffuse malattie non trasmissibili, dall'America latina al Sud Est asiatico. E se i paesi poveri continuano ad avere una prevalenza di diabete intorno al 1,5%, i paesi europei dal 2 al 5%, quelli dell'America Latina, dei Caraibi e del Sudest asiatico hanno ormai una prevalenza del 4-5%, e i regni petroliferi del Golfo Persico sfiorano il 15%. Davanti a tutti alcune popolazioni che più duramente hanno subito l'impatto dei nuovi stili di vita: dagli abitanti delle Mauritius (prevalenza 24%), agli Indiani Pima e i nativi delle isole Nauru, la cui prevalenza di diabete e obesità si aggira fra il il 40 e il 50% (interessante a questo proposito il libro di Gaia Cottino, Il peso del corpo. Un'analisi antropologica dell'obesità a Tonga, Unicopli, 2013). Sbalzati d'un tratto da uno stile di vita e una dieta "paleolitica", si sono ritrovati a prender parte a una mensa pantagruelica che ha innescato in loro una completa sgregolazione alimentare. Forse il ritratto più triste che esce dal libro di Diamond è quello delle donne Pima, che consumano 3.160 calorie al giorno: il 50% in più delle già ipernutrite donne americane. Che ironia: prima affamate, poi uccise dal fast food.