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Che razza di bene è la conoscenza?

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Da qualche anno anche in Italia si è iniziato a discutere della conoscenza come di un bene pubblico. Il recente libro curato dalla bibliotecaria Charlotte Hess e dalla studiosa di scienze politiche Elinor Ostrom, entrambe della Indiana University, appena uscito in edizione italiana (La conoscenza come bene comune - Dalla teoria alla pratica, a cura di Paolo Ferri per Bruno Mondadori, 409 pp., 42 euro) fornisce un buono scorcio sulla vastità dell'argomento.

In quadro generale vede i confini fra comunicazione scientifica accademica e non accademica sempre più labili, a volte messi in discussione deliberatamente proprio in nome del valore pubblico della conoscenza scientifica. Sta maturando, in effetti, un movimento intellettuale che contrasta ogni forma di recinzione (appropriazione indebita) della conoscenza, difende la disclosure o combatte l'enclosure. Inutile dire che, nel pieno dello sviluppo di una economia della conoscenza, gli interessi che si sentono minacciati sono molti e molto rilevanti.

È divenuto controverso che il complesso sistema di registrazione negli uffici brevetti (che garantisce un uso parzialmente esclusivo) e di pubblicazione sulle riviste scientifiche (ad accesso limitato sia per gli autori sia per i lettori), che solo conferisce i crismi dell'autorevolezza alla conoscenza, favorisca davvero l'innovazione complessiva. Brevetti sulle invenzioni, copyright sulle attività  espressive, marchi su attività commerciali, segreti su attività professionali, diritti sull'immagine personale e altri vincoli vengono sanciti di volta in volta da appositi contratti: il confine fra stimolare e inibire sono più problematici di quanto non si pensi. E nella farmaceutica ciò diviene più eclatante, per il potenziale conflitto fra interessi economici enormi e valori etici vitali. La legislazione sul diritto di proprietà intellettuale è già oggi importante negli scambi economici e nella politica internazionale e diverrà centrale nella società della conoscenza.

Occorre, dunque, riaprire interrogativi frettolosamente dati per scontati. Qual era l'obiettivo preciso che si aveva in mente quando si introdusse il copyright? Qual è oggi il bilancio fra effetti positivi ed effetti negativi? Ciò che doveva favorire la produzione e diffusione dell'innovazione (intellettuale o materiale) non sta forse oggi sortendo un effetto complessivamente negativo? Si può pensare qualcosa di leggermente diverso o persino di radicale?

Eppure, se anche si può sostenere che la conoscenza sia un bene pubblico, è davvero un bene pubblico particolare. La sua natura precisa è oggetto di interminate diatribe filosofiche e ormai anche economiche e sociologiche. Ma qualche interessante novità si sta muovendo nei fatti.

Qui il volume diventa davvero uno strumento importante. Il caso più a fondo illustrato è quello delle biblioteche che, similmente ai musei scientifici, si trasformano da archivi a fornitori di servizi a valore aggiunto, da luoghi di conservazione a luoghi di creatività. Seppure con nuove conflittualità con le grandi case editrici di riviste scientifiche, esse divengono <<collaboratori e catalizzatori>> nella ricerca scientifica, <<istituzioni di azione collettiva>> nella società della conoscenza. La pubblicazione cessa, allora, di essere solo un <<prodotto>>, un oggetto terminato una volta per tutte, e diviene un <<processo>>: la dinamica resta aperta, interminata nel tempo e nello spazio, perché tanti possono metterci mano e anzi sono invitati a farlo, costantemente. Non solo Wikipedia, ma un'infinità di nuovi archivi (aperti), nuove modalità di pubblicazione individuale (continua), nuove comunità online (fra docenti, bibliotecari, studenti, cittadini...) riaprono il processo di produzione e mettono in rete tutti e ciascuno: nella società della conoscenza, la fabbrica dell'era industriale viene ora sostituita da un unico cantiere aperto, che ricopre l'intero pianeta.

Ma non è tutto rose e fiori. Non c'è, per esempio, soltanto un digital divide di <<primo livello>>, ma ce n'è anche, e soprattutto, uno di <<secondo livello>>, insidioso e sfuggente, che concerne le competenze adeguate per usare efficacemente le risorse messe a disposizione dalle tecnologie informatiche. Solo accennato è questo aspetto nel volume, ma era importante farlo, visto che è un problema che sta esplodendo, superando le nostre capacità progettuali. Come rimuovere, poi, i filtri alle pubblicazioni scientifiche senza far sì che il grande rumore offuschi, confonda, distrugga il piccolo segnale di grande significato o amplifichi il già grande potere nelle mani di pochi? La diffusione di una nuova alfabetizzazione potrà da sola bastare, o serviranno nuovi diritti di cittadinanza e, dunque, profonde trasformazioni sociali?

Si può discutere se lo stesso processo di creazione della conoscenza sia un bene pubblico in sé, oltre cioè al prodotto conoscenza, come nel volume si sostiene: ma, comunque, l'inclusione del maggior numero di persone possibile nella creazione collettiva di conoscenza ad accesso libero è sicuramente un bene per la società ed è d'altra parte una risposta a una esigenza montante.

I saggi presenti non sono tutti alla medesima altezza qualitativa, ma complessivamente il volume fornisce un'ampia panoramica su quest'area problemica sempre più rilevante che stenta a decollare nel nostro Paese. Ed è già meritevole la collaborazione fra ricercatori e operatori della conoscenza, ulteriore prova della bontà dell'analisi. Il Lettore potrà, dunque, formarsi una prima idea delle sfide che ci attendono per la governance della società della conoscenza, per la formazione alle nuove professioni e anche solo per pensare il futuro.


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Crediti: Foto di Katie Rainbow/Unsplash

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