Davvero interessante il metodo impiegato da tre astronomi nello studio recentemente pubblicato su PNAS. E ancora più interessanti le conclusioni alle quali giungono al termine della loro analisi, suggerendo che, là fuori, ci sarebbero un bel po' di pianeti potenzialmente in grado di ospitare la vita così come noi la conosciamo. Ma andiamo con ordine.
Nella loro indagine, che prende il via dai dati del telescopio spaziale Kepler, Erik Petigura, Andrew Howard e Geoffrey Marcy hanno preso di mira le minuscole variazioni di luminosità di un campione di 42 mila stelle più o meno simili al Sole individuando 603 possibili oggetti planetari. Un lavoro notevole, che ha richiesto l'impiego dei giganteschi telescopi Keck alle Hawaii per acquisire i dati spettrali delle stelle e poter così determinare la loro vera luminosità. Grazie a tale cruciale informazione si è potuto calcolare il diametro di ogni pianeta osservato nel momento del suo transito di fronte alla stella e individuare così i corpi di stazza terrestre. Dieci di quei pianeti, poi, si sono mostrati particolarmente interessanti: non solo avevano dimensioni paragonabili a quelle del nostro pianeta, ma le loro orbite si trovavano all'interno della zona di abitabilità (tra le possibili definizioni, gli autori propendono per quella che la descrive come la regione intorno alla stella in cui il flusso di energia ricevuto dal pianeta è compreso tra un quarto e quattro volte quello che la Terra riceve dal Sole).
Inevitabile, a questo punto, che il lettore alzi la mano per un'obiezione: se su 42 mila stelle solamente dieci hanno un pianeta di taglia terrestre orbitante nella zona di abitabilità vuol dire che i pianeti come la Terra sono tutto sommato merce rara. Dove sono tutti quei pianeti di cui si parla?
Il fatto è che Petigura e collaboratori hanno spinto la loro analisi un po' più in là. L'importante novità del loro studio, infatti, è stata quella di applicare ai dati raccolti un particolare algoritmo di calcolo per valutare quanti pianeti di stazza terrestre orbitanti nella zona di abitabilità potrebbero essere sfuggiti alla rilevazione. I ricercatori hanno dunque inserito nei dati originali da loro utilizzati e provenienti dall'incredibile messe di rilevazioni acquisite nel corso della Missione Kepler una serie di dati fittizi, praticamente falsi pianeti. Una volta inquinati i dati iniziali, hanno osservato quanti di quei pianeti venivano effettivamente rilevati dal loro sofisticato software di analisi dei dati. La conseguente analisi statistica ha poi portato gli astronomi a una ragionevole stima del numero complessivo dei possibili pianeti esistenti. Analisi che, ovviamente, ha considerato anche il fatto che sicuramente esistono pianeti che non saremo mai in grado di individuare perché l'inclinazione orbitale di quei sistemi planetari rispetto alla Terra non ci potrà mai permettere di osservare alcun transito.
Tenuto conto di tutto, la sorprendente conclusione è che il 22% delle stelle simili al Sole ospiterebbero nella loro zona di abitabilità almeno un pianeta di stazza terrestre. Chiariamo meglio la portata di una simile conclusione ricorrendo a un semplice conticino. Se ipotizziamo che le stelle come il Sole possano essere anche soltanto il 10% di tutte le stelle della Galassia (che, all'incirca, sono 200 miliardi), lo studio compiuto da Petigura, Howard e Marcy suggerirebbe l'esistenza nella Via Lattea di quasi quattro miliardi e mezzo di pianeti potenzialmente adatti alla vita. Altro che merce rara, dunque!
Ma non lasciamoci prendere la mano. Ogni volta che si parla di possibili pianeti simili alla Terra è infatti sempre doveroso mettere un freno alle fantasie di chi confida nell'imminente scoperta di un pianeta abitato da forme di vita. Le dimensioni simili a quelle della Terra non bastano certo a trasformare un pianeta in potenziale candidato per ospitare la vita. E questo anche se il pianeta dovesse risiedere nella cosiddetta zona di abitabilità. La presenza di atmosfere particolarmente dense potrebbe innescare un dirompente effetto serra (si veda, non molto distante da noi, quello che succede su Venere) in grado di impedire la sopravvivenza delle molecole indispensabili ai processi biologici. Non è neppure automatico per un corpo celeste che alla potenziale capacità di ospitare acqua liquida sulla sua superficie corrisponda davvero la presenza di tale elemento così indispensabile alla vita come noi la conosciamo. Non si dimentichi, infatti, che l'acqua attualmente così abbondante sul nostro pianeta non risale all'epoca della sua formazione, ma vi è stata portata in epoche successive da asteroidi e comete che si schiantarono sulla superficie terrestre.
Insomma, sarà pure una considerazione banale, ma l'unico pianeta a noi noto in cui certamente c'è vita è il nostro. Per altri corpi celesti solo ipotesi (per quanto attraenti...) e fantasie.
Doveroso, in conclusione, rendere il giusto merito alla Missione Kepler e nel contempo incrociare le dita perché possa continuare. Un guasto al sistema giroscopico che governa il puntamento del telescopio nello spazio, infatti, aveva gettato qualche mese fa ombre sinistre sul futuro della Missione. Stando alle ultime notizie, però, sembrerebbe proprio che alla NASA siano riusciti nell'impresa e Kepler possa tornare alla sua caccia planetaria. Proprio nei giorni scorsi si è tenuta presso il NASA Ames Research Center di Moffett Field la Kepler Science Conference II, l'importante appuntamento internazionale in cui vengono presentate e discusse le più recenti scoperte suggerite dall'analisi dei dati di questo telescopio spaziale. Bastano un paio di dati per delineare in modo nitido il contributo di Kepler alla scoperta dei pianeti extrasolari. Primo: l'attuale conteggio di pianeti individuati da Kepler ammonta a 3538 corpi celesti, con un incremento del 29% rispetto al precedente annuncio dello scorso gennaio. Secondo: il maggior aumento di scoperte riguarda proprio i pianeti di stazza terrestre (+78%) e di stazza appena più grande, i cosiddetti super-Earth planets (+33%).
Di fronte a simili risultati sarebbe davvero un peccato che Kepler dovesse buttare la spugna.
Per approfondire:
Paper su PNAS
Habitable Zone Gallery
Catalogo Pianeti Extrasolari