Ricorre quest’anno il centenario della prima edizione dei “Canti Orfici”, una raccolta di liriche e prose che costituiscono l’opera più celebre del poeta Dino Campana, nato a Marradi nel 1885 e morto nell’ospedale psichiatrico di Castel Pulci nel 1932. Campana fece stampare il manoscritto nel suo paese natale, appartenente alla cosiddetta “Romagna toscana”, dal tipografo Bruno Ravagli. Ne uscirono 1000 copie, in veste assai dimessa, che il poeta si sforzava di vendere tra incomprensioni e difficoltà, anche nei caffè.
Un suo carissimo amico, Federico Ravagli (1889-1968), omonimo del tipografo, ne ebbe una in dono, con dedica. Così la descrive: “L’edizione è modesta, umile, francescana: nonostante i caratteri pomposi del titolo. Men che mediocre è la qualità della carta, l’impaginazione rivela grave incuria, la composizione tipografica non è esente da errori”. Quell’umile libro, oggi collocato fra le opere più importanti del Novecento, non interessava nessuno. Anche oggi, forse, lo vita turbolenta del “poeta pazzo” attrae il pubblico più dei suoi componimenti poetici.
Sebastiano Vassalli ne ricavò un indimenticabile romanzo-verità dal titolo “La notte della cometa” (Einaudi, 1984) mentre il cinema si occupò della tormentata relazione fra il poeta e Sibilla Aleramo con il film “Un viaggio chiamato amore” diretto da Michele Placido (2002).
I Canti Orfici sono stati definiti dal poeta Mario Luzi (1973) “una grande metafora dell’onnipresenza umile e solenne della vita” da cui parte un “invito ad aprirsi alla inesauribile trasformazione del mondo”.
Una rilettura in occasione del centenario potrebbe far risaltare l’attualità di un libro “che in fondo non ha mai avuto il suo tempo”. Ma perché occuparsene qui? E’ presto detto e sorprenderà alcuni: Campana studiò Chimica all’Università di Bologna.
La sua carriera scolastica fu movimentata, intervallata da vicende dolorose e non lo portò alla laurea. Iniziò a frequentare Chimica pura nell’AA 1903-1904. L’anno dopo passò a Chimica Farmaceutica trasferendosi all’Istituto di Studi Superiori di Firenze. Nel 1905-1906 era al terzo anno. Intanto le sue condizioni mentali si aggravarono e venne ricoverato nel manicomio di Imola. Ne uscì contro il parere dei medici perché il padre ne assunse la responsabilità. Nel 1906-1907 tornò a Chimica pura (IV anno) ma dopo pochi mesi iniziò i vagabondaggi all’estero che lo porteranno in Francia, America Latina e Belgio. A causa delle sue intemperanze conoscerà le prigioni e di nuovo il manicomio. Tornato a casa, frequentò a Bologna le lezioni universitarie del critico letterario Alfredo Galletti (1872-1962).
Il 22 Novembre 1912 s’iscrisse di nuovo a Chimica pura nella stessa Università. Una testimonianza interessante della sua vita di studente è una copia del Trattato di Chimica Inorganica di A. F. Holleman tradotto da Giuseppe Bruni, con la prefazione di Giacomo Ciamician (Milano, 1904), che si trova a Faenza. Come descritto da Giuseppe Bertoni (Manfrediana, 1991), il libro reca la nota di possesso di Dino Campana, cancellata in parte con un tratto di penna dal proprietario successivo. Durante gli anni bolognesi Campana lavorò ai suoi Canti e frequentò gli ambienti goliardici. Le sue prose riferiscono delle passeggiate “sotto l’incubo dei portici” e dei “calmi conversari” degli studenti nelle vecchie taverne. Nel brano “La giornata di un nevrastenico”, l’acuto osservatore ci regala uno sprazzo di felice ironia. Parlando delle studentesse che incamminandosi sotto i portici andavano a lezione, scrisse: “Non hanno l’arduo sorriso d’Annunziano palpitante nella gola come le letterate, ma più raro un sorriso e più severo, intento e masticato, di prognosi riservata, le scienziate”.
Resta da capire perché s’iscrisse a Chimica. A noi piacerebbe pensare che, come il romantico Piercy Shelley (1792-1822), ne avvertisse il fascino nascosto ma invece fu per sbaglio. Lo confessò lui stesso: “Io studiavo chimica per errore e non ci capivo nulla. Non la capivo affatto. La presi per errore, per consiglio di un mio parente. Io dovevo studiare lettere. Se studiavo lettere potevo vivere….Le lettere erano una cosa più equilibrata…..La chimica non la capivo assolutamente, quindi mi abbandonai al nulla”.
Chimico mancato ma superiore interprete delle umane inquietudini.
Per saperne di più
D. Campana, Opere e contributi (a cura di Enrico Falqui), 2 voll., Vallecchi, Firenze, 1973
F. Ravagli, Dino Campana e i goliardi del suo tempo (1911-1914), Editrice Marzocco, Firenze, 1942 (ristampa, CLUEB, Bologna, 2002)