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Andolina era Andolina anche prima di Vannoni

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La classica etichetta che accoppia genio e sregolatezza gli piace molto. Ha forse danneggiato la sua brillante carriera di ematologo pediatra e compromesso i rapporti con il suo Istituto e molti colleghi, ma se di questa immagine sopra le righe Marino Andolina non fosse anche compiaciuto non ne avrebbe fatto il registro su cui si gioca la sua autobiografia (“Marino Andolina, un pediatra in guerra”, Mursia, 2014). «Un libro che non mi rappresenta» precisa il medico, reso noto al grande pubblico dopo la tempesta del caso Stamina, «ma soltanto a causa dei tagli e delle cautele imposte dall’editore. Io sono ancora più matto di così» dice scherzando, ma non troppo.

L'amicizia con Karadzic

In effetti la prima parte del libro è un avvincente susseguirsi di avventure alla Indiana Jones,  in tutti gli scenari di guerra degli ultimi trent’anni, dalla ex Jugoslavia all’Afghanistan, dal Libano al Darfour, dalla Somalia all’Iraq. Dall’Istituto Pediatrico Burlo Garofolo di Trieste presso cui Andolina dirigeva il Dipartimento di trapianto di midollo il medico appare sempre pronto a partire come volontario di diverse associazioni, per portare aiuti, trasferire in Italia bambini da curare, perfino intervenire, secondo i suoi racconti, nelle trattative tra parti ostili. Resta memorabile la pagina in cui si descrive il primo incontro con il collega medico psichiatra Radovan Karadzic, ex presidente della Repubblica Serba di Bosnia: «Una sera io e Paolo Matteucci, un mio amico ora scomparso, uscivamo dal funerale del padre di un alto ufficiale serbo. Eravamo completamente ubriachi: seguendo le tradizioni locali ai funerali serbi ogni dolente porta con sé una bottiglia di rakija. E si beve. Non so come siamo arrivati a Pale, dove abbiamo letteralmente bussato alla porta della residenza di Karadžic. E non so come, a notte fonda, mi abbiano fatto entrare e incontrare Radovan, forse già in pigiama». A quell’incontro ne seguirono altri, che aiutarono Andolina a trasportare liberamente i bambini che ne avevano bisogno e rinforzarono tra i due “uno strano rapporto di complicità”, tanto che il medico triestino sarà anche convocato a testimoniare al Tribunale dell’Aja nel processo per crimini di guerra della ex-Jugoslavia.

La vera guerra adesso è qua 

«Ma, in quegli anni, da ogni guerra sapevo di poter tornare nel mio nido, con i miei cuccioli, al sicuro in un contesto sicuro e democratico» racconta. «Con quel che è successo dopo, con Stamina, la guerra invece ce l’ho in casa, dove comincio a dubitare dell’esistenza stessa della democrazia». Il filo rosso che unisce le due parti del libro è evidente, così come è evidente perché proprio adesso Andolina si è deciso a raccontare la sua storia di medico di guerra: assediato da chi accusa lui e la Stamina Foundation di non aver rispettato, e non rispettare,  le regole (da quelle della sperimentazione scientifica al codice deontologico dei medici, dalle norme interne agli ospedali fino alle leggi dello Stato), il pediatra amatissimo dai triestini risponde mettendo davanti agli occhi di chi legge una lunghissima serie di casi in cui, proprio grazie alle sue trasgressioni, sarebbero state salvate decine, centinaia di vite umane. Non solo in situazioni belliche estreme, ma già nei primi passi dell’introduzione dei trapianti di midollo osseo in Italia. Andolina infatti è stato tra i primi, nel 1984, a effettuare questo intervento sui bambini. Anche i suoi avversari gli riconoscono straordinarie intuizioni, che talvolta hanno precorso i tempi: la possibilità di prelevare il midollo anche da donatori non perfettamente compatibili, per esempio, o l’idea di trattarlo con farmaci che riducessero il grave rischio di GVHD, la reazione immunitaria del trapianto stesso contro l’ospite. Ma a questo suo ruolo propulsivo nell’ematologia pediatrica italiana non corrisponde una produzione scientifica equivalente: «Non mi interessava scrivere lavori e pubblicare, anche se il mio ospedale, come IRCCS, veniva finanziato anche in funzione di questo. Se avevo qualcosa da dire lo comunicavo a voce ai colleghi, insegnando loro le tecniche che man mano andavo sviluppando» ribatte. Un sistema che faceva risparmiare tempo, ma impediva anche il controllo sulla sua attività, che all’interno del Burlo creava non pochi malumori.

Tentativi di cure

Tra i tantissimi episodi contenuti nel libro, per esempio, c’è quello in cui Andolina racconta di aver curato un caso di sindrome di Niemann Pick, iniettando sotto cute a un paziente placenta sminuzzata. «È stato un primo esempio di trattamento con cellule staminali, anche se allora non sapevamo che lo erano». Ma non le sembrava imprudente trattare una persona così, in base alle teorie formulate da qualcuno senza aver prima raccolto dati sperimentali? «In quel caso non mi aspettavo nessun problema» risponde, «e infatti non ci sono stati effetti collaterali. Sentivo invece il tintinnio di manette quando ho iniettato nella spina dorsale di una bambina in coma per leucodistrofia metacromatica (la malattia della piccola Sofia, ndr) una sospensione di cellule che avevo prelevato dal suo stesso sangue, dopo averle sedimentate, centrifugate e irradiate. Dal punto di vista legale iniettare nel midollo spinale cellule prelevate dal sangue o dal midollo osseo e non manipolate non era e non è illecito. Il medico diventa perseguibile solo in caso di effetti nocivi, che per fortuna non ci furono. Anzi, dopo un paio di settimane la piccola, fino ad allora in coma, riuscì a scandire con la bocca la parola “stupida”, pur senza far uscire alcun suono. Madre e bambina finirono in prima serata su Raiuno a parlare del miracolo». Nessuna guarigione, intendiamoci, solo questo piccolo segnale assente fino a poco prima.

Molti nemici, molto onore?

Incoraggiato da questo e altri episodi, Andolina decise di provare a iniettare per via lombare cellule da sangue periferico ad altri pazienti con malattie genetiche. Nel 1995 ottenne anche un finanziamento di 150 milioni dal Ministero per un Progetto finalizzato, bloccato da una levata di scudi dei massimi esperti italiani che, allora come poi nel caso Stamina, misero in guardia da trattamenti privi di basi scientifiche, al di fuori di un vero e proprio protocollo di ricerca. Il maestro suo e indirettamente di gran parte dei pediatri italiani, Franco Panizon, allora lo difese come un padre. Ma all’interno del Burlo il suo ruolo da cane sciolto cominciava a non essere ben visto, anche perché esponeva l’Ospedale a possibili rischi seri, se qualcosa di quel che Andolina faceva in maniera autonoma, ma tra quelle mura, fosse andato male. «Eppure venivo tollerato per il mio lavoro indefesso, con turni di 20 ore ai tanti trapianti di midollo “regolari”, rimborsati dalla Regione 58.000 euro l’uno» sostiene Andolina. «Facevo tutto da me. Anche il Centro trapianti è stato messo su in due stanze adibite a magazzino con una parete in cartongesso, nei giorni di Pasqua, da un papà dell’Associazione che finanziò anche in seguito la messa a norma del centro, sempre col silenzio-assenso dell’Ospedale». E per andare a insegnare ai colleghi di altri ospedali di Italia come fare i trapianti il medico racconta che si mascherava, per non essere riconosciuto come estraneo all’ospedale, e quindi non autorizzato a operare.

L'incontro con Vannoni

Andolina non andò tanto per il sottile nemmeno quando la famiglia di Daniele Tortorelli, in grave condizioni dopo che lo stesso Andolina aveva sottoposto il bambino a un trapianto di midollo per cercare di trattare la sua sindrome di Niemann Pick, pensò di rivolgersi a Davide Vannoni, che allora operava a San Marino. Andolina caricò il piccolo di sua iniziativa sulla sua macchina, senza aria condizionata, in una calda giornata di agosto e lo riportò poi in reparto, al Burlo di Trieste, senza chiedere né informare nessuno. Qui, a distanza di tre settimane, registrò i presunti miglioramenti che lo convinsero della validità dei trattamenti proposti da quel «giovanotto con capelli lunghi e abiti “molto” informali» che era Davide Vannoni.

Le regole sono un optional?

L’informalità, evidentemente, era un tratto comune che rinsaldò l’intesa tra i due. Non sorprende, alla luce del racconto precedente, che i due siano entrati in sintonia, né che Marino Andolina, una volta convinto dell’efficacia e della sicurezza dei trattamenti di Stamina sulla base di un caso da lui giudicato positivo, con una strategia perfettamente in linea con quello che lui aveva cercato di fare fino ad allora, si sia buttato in questa avventura a rischio di compromettere ulteriormente la sua immagine, senza troppo preoccuparsi di seguire un percorso controllabile. «All’inizio della mia attività con Franco Panizon, facevamo entrare di nascosto le mamme in ospedale e, sempre di nascosto, lasciavamo andare a casa i bambini a dormire la notte» racconta, «anche se le norme di allora impedivano tutto questo». Difficile oggi dargli torto, su questi punti, ma il percorso irregolare, al di fuori dalle regole, seguito da Stamina, ha ben altre conseguenze: oltre ai possibili danni ai pazienti, su cui la magistratura sta ancora indagando; oltre all’impegno di personale e strutture pubbliche, senza parlare delle spese legate alla controversia legale; oltre alla tempesta emotiva che ha travolto tantissime famiglie, divise tra speranza e delusione, tutta la ricerca in questo campo rischia di essere travolta da questa vicenda. Speriamo in un modo che non sia di troppo danno per i malati.  


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