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I cambiamenti climatici nelle regioni polari

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Il Dipartimento Scienze del Sistema Terra e Tecnologie per l’Ambiente del CNR svolge un ruolo di primaria importanza nel rispondere alle Grand Challenges europee per la ricerca, l’innovazione e lo sviluppo sostenibile.
Le grandi sfide della società moderna riguardano i cambiamenti climatici, l’invecchiamento della popolazione e la necessità di una maggiore efficienza nello sfruttamento delle risorse. Inoltre, occorre incrementare le risorse alimentari dall’agricoltura e dalla pesca per assicurare la crescita della popolazione, garantendo la sostenibilità ambientale.
Gli obiettivi identificati dalla Commissione Europea nel prossimo programma quadro Horizon 2020 pongono la ricerca come motore centrale di sviluppo e innovazione, per aumentare la competitività dell’Europa.
Il CNR ha l’obiettivo primario dell’eccellenza scientifica, finalizzata ad aumentare le conoscenze generate dalla ricerca sulla sostenibilità ambientale, economica e sociale e sugli impatti del cambiamento climatico e la capacità di adattamento degli ecosistemi.
L’eccellenza nel campo dei cambiamenti globali nel CNR rispetto al contesto internazionale si manifesta in settori quali i cambiamenti della composizione dell’atmosfera, le ricerche polari, la paleoclimatologia, lo studio degli ecosistemi marini e terrestri e le ricerche in alta quota ma anche nello studio di impatti e mitigazione a livello di ecosistemi per arrivare agli effetti sulla società e sull’economia. In particolare, la presenza italiana e del CNR nelle regioni polari è motivata dall’importanza che queste hanno nello studio dei cambiamenti climatici e dall’influenza che esercitano sul clima del pianeta. Il cambiamento climatico avviene nelle regioni polari più velocemente che altrove.
In Artico, l’aumento delle temperature negli ultimi cento anni è stato quasi doppio rispetto alla media del pianeta; nella penisola antartica la velocità di incremento delle temperature è stata ancor più elevata. Anche gli scenari futuri prevedono un’intensificazione dell’aumento delle temperature polari per i prossimi decenni, con possibili importanti effetti su scala globale. I risultati disponibili in entrambe le aree polari mostrano come i mutamenti che accadono alle alte latitudini si riflettano poi su tutto il pianeta. Se per esempio in Antartide si sciogliesse anche solo la metà occidentale della calotta glaciale, il livello dei mari salirebbe di 6 metri con conseguenze del tutto evidenti su molti Stati e città costiere. I cambiamenti in atto e quelli previsti presentano quindi rischi molto grandi per l’ambiente e per l’economia e nei prossimi anni sarà dunque necessario prendere decisioni importanti all’altezza delle sfide economiche, sociali e ambientali da affrontare. Una base di conoscenze affidabili anche sulle regioni polari sulle quali fondare le decisioni politiche è un prerequisito per fornire soluzioni sostenibili. 

Il CNR svolge un ruolo centrale nella ricerca polare, nel panorama sia nazionale che internazionale.
Infatti, è leader nelle ricerche in Artico dove gestisce importanti infrastrutture di ricerca e una base scientifica (Stazione Dirigibile Italia) a Ny-Ålesund, nell’arcipelago delle Svalbard (79° N). La dotazione infrastrutturale comprende la torre per lo studio dei cambiamenti climatici (Nobile-Amundsen Climate Change Tower), il laboratorio per la Chimica atmosferica (monitoraggio degli inquinanti come mercurio e metalli pesanti) e per lo studio dell’aerosol e le istallazioni osservative ocenetwork internazionali per il monitoraggio delle Svalbard (Svalbard Integrated Observing System, SIOS) e, in generale, per lo studio dell’Artico (per esempio Sustaining Arctic Observing Network, SAON). Il CNR, con il Dipartimento Scienze del Sistema Terra e Tecnologie per l’Ambiente gioca un ruolo fondamentale anche nella ricerca al Polo Sud, nel continente Antartico, nell’ambito del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (PNRA).
Il PNRA è promosso dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca secondo le linee strategiche definite dalla Commissione scientifica nazionale per l’Antartide (CSNA), con la programmazione e il coordinamento scientifico del CNR, mentre l’ENEA è responsabile dell’attuazione logistica delle spedizioni.

La ricerca in Antartide

Tra ottobre 2012 e febbraio 2013 si è tenuta la XXVIII spedizione scientifica italiana in Antartide, le cui attività di ricerca hanno coinvolto circa 50 progetti scientifici con la partecipazione di più di 100 ricercatori in ambiti scientifici diversi: le scienze della vita, della terra, dell’atmosfera e dello spazio e lo studio dei cambiamenti climatici in atto e di quelli avvenuti nel passato (paleoclima).
I dati e i campioni raccolti in Antartide vengono poi analizzati ed elaborati presso i laboratori italiani che partecipano ai diversi progetti. Le attività in Antartide si svolgono presso la Stazione Italiana “Mario Zucchelli”, sita sulla costa di Baia Terranova, nella Stazione italo-francese Concordia che si trova nell’entroterra nel sito chiamato Dome C a 3.233 metri di altitudine, raggiungibili dopo lunghi viaggi in aereo o via nave. Le ricerche sono condotte anche sulla nave oceanografica e sui mezzi navali minori e nei vari campi remoti istallati appositamente all’interno del continente, che si raggiungono mediante aerei o elicotteri.
Lo studio dei cambiamenti climatici in Antartide è particolarmente importante. Per la complessità del sistema climatico e l’estrema sensibilità delle aree polari a perturbazioni sia naturali che antropiche, le previsioni dei modelli climatici, sia pur concordi rispetto a un futuro aumento delle temperature, possono differire tra loro in modo significativo rispetto all’entità dell’aumento.

Diversi fattori contribuiscono a determinare l’incertezza delle attuali previsioni climatiche: (a) la presenza e il peso rilevante nel sistema climatico polare di numerosi e forti interazioni e retroazioni (che amplificano i cambiamenti e i processi se positivi o tendono a smorzarli se negativi) che coinvolgono la neve, il ghiaccio marino, le nubi, le particelle di aerosol e la radiazione; (b) la conoscenza ancora limitata dei processi coinvolti e la necessità di modelli climatici più fini e adeguati; (c) la difficoltà di individuare chiaramente gli effetti climatici causati dall’attività umana e quelli che sono invece conseguenza della variabilità naturale del sistema; (d) la difficoltàintrinseca (logistica ed economica) di avere una rete osservativa adeguata nelle regioni polari. Queste incertezze e la necessità di migliorare la modellistica stimolano un gran numero di ricerche e un dibattito scientifico molto vivace.
Gli studi degli ultimi anni hanno fornito prove del riscaldamento e hanno consentito di predisporre mappe degli aumenti di temperatura sull’Antartide, con molte disomogeneità e forti contrasti tra la penisola antartica e il resto del continente.
Nella penisola antartica, nell’ultimo mezzo secolo, si è registrato un marcato aumento delle temperature medie, fino a 3 °C mentre nel resto del continente gli aumenti sono molto più modesti e poco significativi statisticamente.
Tuttavia, diversi risultati ed evidenze dell’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima (CNR-ISAC) confermano che il riscaldamento dell’Antartide è una concreta realtà. Per esempio, dal 1950 a oggi si stima che nella penisola antartica l’estensione delle masse di ghiaccio si sia ridotta di 8000-10.000 km2 e le misure satellitari disponibili dal 1980 sostanzialmente confermano questo dato. L’equilibrio delle masse di ghiaccio galleggianti intorno all’Antartide è fortemente dipendente dalle temperature estive ed è alla fine delle estati australi che masse enormi di ghiaccio possono letteralmente disintegrarsi. Questi modelli climatici e l’aumento delle temperature sono condizionati da vari fattori tra cui la modificazione della forza dei venti circumpolari e i cambiamenti della distribuzione e del ciclo annuale dell’ozono stratosferico.
Recentemente, l’integrazione di osservazioni satellitari con dati a terra ha portato a comprendere che l’aumento delle temperature interessa non solo la penisola, ma tutto il continente antartico, coprendo la maggior parte dell’Ovest Antartide con velocità di riscaldamento che arrivano a 0,2 °C per anno e l’Est Antartide con aumenti anch’essi significativi, che portano i dati medi dell’Antartide molto vicini alle stime globali per l’emisfero sud.
È quindi evidente che, integrando dati da satellite e al suolo e grazie alle stazioni disponibili (una costiera e una all’interno del continente), l’Italia possa dare un contributo scientifico significativo a risolvere le incertezze sul clima.

Il clima del passato

Per comprendere i cambiamenti climatici in atto è molto importante studiare quelli avvenuti nel passato, in epoche remote. La storia climatica del nostro pianeta è registrata in maniera indelebile negli strati di neve e di ghiaccio accumulati nelle enormi calotte glaciali dell’Antartide e della Groenlandia.
La storia della terra racconta infatti di variazioni climatiche di grandi proporzioni, verificatesi per cause naturali: epoche glaciali, separate da periodi interglaciali di minore durata e considerevolmente più caldi. In particolare, la copertura del ghiaccio ha registrato un ritmo ciclico, con periodi di espansione in cui si è instaurata un’era glaciale della durata di circa 100.000 anni, per poi ritrarsi per periodi di minore durata, dando vita a un’era interglaciale con temperature più miti. La più recente fase di glaciazione ebbe fine circa 18.000 anni fa. Tuttavia, gli eventi meteorologici estremi e la velocità di riscaldamento senza precedenti registrata in questi ultimi anni hanno dirottato l’attenzione sui pericoli di modificazioni del clima causati dalle attività umane e sui rischi connessi. Per questo si studiano i cambiamenti oggi in atto, che sembrano deviare clamorosamente dalle fluttuazioni ordinarie, raffrontandoli con quelli avvenuti nel passato. Per ottenere importanti informazioni del passato c’è bisogno di dettagliati archivi climatici e ambientali. Tra questi le carote di ghiaccio, che si possono prelevare nelle calotte polari, sono sicuramente tra i più preziosi poiché registrano ad altissima risoluzione temporale sia le perturbazioni climatiche, sia gli effetti che esse scatenano. Le carote di ghiaccio non sono altro che cilindri di circa 10 cm di diametro, che si prelevano in successione perforando le calotte polari, fino a profondità vicine ai quattro chilometri.
Dall’analisi chimica e fisica di questi archivi, condotta in sofisticati laboratori e talvolta anche in campo, è possibile ottenere importanti informazioni sulla storia del clima della Terra. Grazie allo studio di questi archivi storici del clima condotti presso l’Istituto per la Dinamica dei Processi Ambientali (CNR-IDPA) da Carlo Barbante e dai suoi collaboratori, è emerso come dall’inizio della rivoluzione industriale la velocità di crescita della concentrazione di anidride carbonica (CO2) non abbia precedenti negli ultimi 800.000 anni. In epoche remote la concentrazione di CO2 nell’atmosfera è variata da un minimo di circa 170 parti per milione in volume (ppmv), durante i periodi più freddi, fino a circa 290 ppmv, nei periodi più caldi, come fedelmente registrato dall’analisi delle bolle d’aria contenute nelle carote di ghiaccio.
Questi dati confrontati con la concentrazione atmosferica attuale (396,80 ppmv nel febbraio del 2013) evidenziano l’aumento notevolissimo avvenuto in un così breve periodo dopo la rivoluzione industriale, a seguito delle ingenti quantità di CO2 emessa nell’atmosfera per l’uso massiccio di combustibili fossili. Nonostante la sua bassa concentrazione, la CO2 è componente fondamentale dell’atmosfera perché, insieme al vapore acqueo e al metano, intrappola la radiazione infrarossa della luce solare riflettendola verso il suolo (il cosiddetto effetto serra) impedendo alla Terra di raffreddarsi. Valori elevati di CO2 inducono altresì un riscaldamento della superficie del nostro pianeta. È oramai dimostrato che l’aumento della quantità di CO2 contribuisca all’effetto serra e al rapido riscaldamento del pianeta cui gli ecosistemi potrebbero non avere il tempo necessario per adattarsi. Le ipotesi formulate per spiegare l’andamento di CO2 in atmosfera che negli ultimi 800.000 anni ha visto l’alternarsi di minimi e massimi di concentrazione, rispettivamente nei periodi glaciali e interglaciali, sono molteplici. A differenza di quanto ritenuto finora, si è recentemente scoperto che circa 20.000 anni fa, al termine dell’ultima era glaciale, la temperatura dell’Antartide e la CO2 sono aumentate contemporaneamente. La sincronia provata con questo recente studio di Barbante indica che la CO2 ha giocato un ruolo essenziale nel riscaldamento della Terra e potrebbe essere stato un fattore scatenante. Pur tuttavia esistono molteplici altri fattori che giocano un ruolo comprimario nella regolazione del clima, quali per esempio il carico delle polveri in atmosfera e l’estensione dei ghiacci marini. Anche questi fattori possono essere studiati attraverso l’analisi delle carote di ghiaccio nelle aree polari.

Gli oceani, fonte preziosa di informazioni

Ma lo studio del clima e dei cambiamenti climatici non può prescindere dalla conoscenza dei processi che avvengono negli oceani e che influenzano e determinano il clima del pianeta. Gli oceani non sono mai fermi ma, al contrario, come per un enorme sistema cardiocircolatorio, sono solcati da inarrestabili enormi fiumi di acque che – a tutte le profondità – mescolano e trasportano calore, ossigeno, nutrienti, inquinanti e organismi.
La circolazione marina influenza profondamente non solo gli organismi marini e i loro habitat, ma anche il clima della Terra e quindi tutti gli habitat terrestri. Le acque superficiali sono tipicamente più calde e meno dense e galleggiano al di sopra di acque più dense, a meno che il vento o le condizioni meteo marine rimescolino la colonna d’acqua. Un tale tipo di colonna d’acqua è detto stabile, ma la stabilità dipende dalla differenza di densità tra i vari strati. Se le acque superficiali sono solo leggermente meno dense di quelle sottostanti, sarà necessaria poca energia per rimescolare i due strati e la colonna, quindi, avrà una bassa stabilità. Al contrario, se una colonna d’acqua è molto stabile, avrà una differenza di densità molto ampia tra i due strati e richiederà quindi molta più energia per il suo rimescolamento. Talvolta, la colonna d’acqua diventa instabile e le acque superficiali diventano più dense di quelle sottostanti; quando ciò avviene, le masse d’acqua superficiali sprofondano (downwelling) mescolandosi a quelle profonde durante il processo di inabissamento. L’intero processo, anche detto overturn, dà luogo alla formazione di celle convettive. Una volta che l’acqua superficiale è sprofondata, la sua salinità e temperatura non cambia; a partire da questo momento, la massa d’acqua conserva una propria “impronta digitale”, una combinazione caratteristica di temperatura e salinità, che gli oceanografi possono utilizzare per seguirne i movimenti ovvero mappare la circolazione delle masse d’acqua su grandi distanze. Poiché questo tipo di circolazione è dovuta a cambiamenti di densità, che a loro volta sono legati a variazioni di temperatura e salinità, si usa spesso definirla con il nome di circolazione termoalina. Una volta abbandonata la superficie, le masse d’acqua sprofondano fino a una quota determinata dalla loro densità. Le acque a densità intermedia scendono fino a una data profondità, dove sono leggermente più dense delle superiori ma leggermente meno di quelle sottostanti. Per inabissarsi fino al fondo, le masse d’acque devono diventare molto dense, cioè molto fredde e salate.
Ciò accade solo in pochissime località e, peraltro, in maniera non continuativa ma solo in particolari condizioni climatiche. Le più importanti sono le aree polari: individuate nell’Oceano Atlantico settentrionale e in alcune aree intorno l’Antartide; dopo lo sprofondamento, le acque si distribuiscono in tutti i bacini oceanici, per poi riemergere in superficie e muoversi nuovamente verso le zone di origine, dove il ciclo ricomincia. Queste ricerche vengono condotte dall’Istituto di Scienze Marine (CNR-ISMAR) in collaborazione con il gruppo di Giorgio Budillon dell’Università di Napoli “Parthenope”. Attraverso questo processo l’oceano distribuisce circa il 50% del calore che arriva sulla Terra (l’altro 50% è distribuito dall’atmosfera) trasportandolo dall’equatore (dove è in eccesso) ai poli (dove c’è un deficit); si tratta dunque di un ingranaggio fondamentale del clima e dei suoi principali cambiamenti.
Questa circolazione termoalina globale è chiamata greatoceanconveyorbelt (grande nastro trasportatore oceanico) ed è capace di rimescolare le acque oceaniche su una scala temporale di circa 1.000 anni (il tempo necessario affinché una particella di acqua percorra l’intero ciclo e ritorni al punto di partenza). Questa circolazione riveste una fondamentale importanza per il clima globale: si pensa, infatti, che sue alterazioni abbiano provocato nel passato cambiamenti climatici e persino glaciazioni. Nella formazione delle acque dense nelle zone polari, assumono particolare rilevanza le cosiddette polynye, zone dove il mare rimane libero dai ghiacci anche durante la stagione invernale. Nel caso di polynye costiere a calore latente, i freddi venti che soffiano sul mare sono responsabili della formazione del ghiaccio marino in quanto raffreddano gli strati superficiali del mare e contemporaneamente allontanano il ghiaccio appena formato consentendo l’ulteriore formazione di ghiaccio. In questo processo l’acqua solidificando rilascia parte del suo contenuto di sale agli strati sottostanti che quindi aumentano la loro densità e possono sprofondare fino a raggiungere il fondo degli oceani.
Le polynye sono quindi considerate delle “fabbriche di ghiaccio” e rivestono un ruolo fondamentale nella circolazione termoalina. Questa circolazione contribuisce a “ventilare” le acque profonde e a favorire la “cattura” dei gas atmosferici (ossigeno, anidride carbonica ma anche inquinanti) che entrano in soluzione, contribuendo in tal modo a far diminuire la concentrazione dei gas serra in atmosfera. L’oceano, insieme alle foreste costituisce infatti il più grande serbatoio di CO2 del globo terrestre. Più le acque sono fredde più gli strati superficiali sono efficienti in quest’opera di sottrazione. Il monitoraggio e lo studio della circolazione oceanica in Antartide è quindi un aspetto cruciale per la conoscenza del clima terrestre e della sua variabilità.
Il CNR contribuisce con ricerche di frontiera della scienza polare allo studio sul cambiamento globale, al fine di comprendere i processi e prospettare soluzioni sostenibili e che consentano di dare risposte ai bisogni delle società e dell’economia.
Nelle Scienze polari, il CNR vanta non solo ricerca qualitativamente di eccellenza ma il privilegio unico al mondo di essere presente con infrastrutture scientifiche in tutti e tre i poli della Terra: Artide, Antartide e Himalaya.

ENRICO BRUGNOLI 

Tratto da Scienza & società - Novant'anni di CNR 1923-2013


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