fbpx Clima: come ridurre le emissioni? Le conclusioni dell’IPCC | Scienza in rete

Clima: come ridurre le emissioni? Le conclusioni dell’IPCC

Read time: 9 mins

Con la pubblicazione del terzo capitolo del Quinto Rapporto di Valutazione (AR5) dell’IPCC si conclude la trilogia che fa il punto sui progressi della ricerca scientifica internazionale in materia di cambiamenti climatici dal 2007 (data del Quarto Rapporto, AR4) ad oggi. Il contributo del Working Group III, che si occupa delle misure di mitigazione, è stato approvato sabato 12 aprile a Berlino. La sintesi in 33 pagine (Summary for Policy-makers) è disponibile online e il report completo (oltre 2000 pagine) verrà pubblicato il 15 aprile.
Il lungo lavoro dell’IPCC si concluderà ufficialmente in ottobre, con la pubblicazione del rapporto finale che sintetizza i tre volumi, ma gli elementi per avere un quadro complessivo della situazone ci sono già tutti.
Il primo volume sulle basi della scienza climatica, pubblicato a settembre dell’anno scorso, conclude che il riscaldamento globale è un fenomeno innegabile e che le emissioni di gas serra prodotte da attività umane sono la causa principale.
Il secondo, uscito a marzo, afferma che gli impatti dei cambiamenti climatici sono già visibili “in tutti i continenti e negli oceani” e spiega come ridurre i rischi e la vulnerabilità di Paesi, popolazioni e settori più esposti.
Il terzo e ultimo volume invece cerca di dare risposte ad una domanda altrettanto fondamentale: come ridurre le emissioni ed evitare “pericolose interferenze con il sistema climatico”? Quali misure tecnologiche e istituzionali abbiamo a disposizione?

I dati di partenza

Innanzitutto, non è una sfida facile. Le emissioni di gas serra da attività umane continuano ad aumentare e sempre più in fretta. Tra il 1970 e il 2000 le emissioni sono cresciute del 1.3% all’anno, mentre dal 2000 al 2010 il tasso di crescita annuale è salito al 2.2%. Le misure adottate finora, sebbene sempre più diffuse (+22% nelle emissioni soggette a piani di riduzione nazionali dal 2007 al 2012) sono state insufficienti. Secondo il rapporto, circa la metà delle emissioni accumulate dal 1750 al 2010 sono state prodotte negli ultimi 40 anni. Nel 2010 sono stati emessi 49 miliardi di tonnellate di anidride carbonica equivalente (CO2eq), di cui buona parte (32 GtCO2eq) riconducili all’uso di combustibili fossili, che ha contribuito per circa il 78% all’aumento totale di gas serra dal 1970 al 2010. L’anidride carbonica si conferma il gas serra più diffuso, seguito da metano, protossido di azoto e gas fluorinati.

Emissioni per gas serra nel 2010, IPCC AR5 WGIII

L’aumento annuale globale di emissioni è trainato soprattutto dalla produzione di energia e dal settore industriale, con un contributo consistente ma stabile delle attività legate all’uso del suolo (agricoltura e foreste, AFOLU). Dal 2000 infatti le emissioni sono cresciute in tutti i settori, eccetto quest’ultimo.

Crescita economica e aumento della popolazione sono i fattori che spingono le emissioni a livelli sempre più alti e vanificano i progressi, per esempio nel campo dell’efficienza energetica. Ma mentre il contributo dell’aumento demografico è rimasto costante negli ultimi dieci anni, quello della crescita del PIL mondiale è salito drasticamente e il maggiore ricorso al carbone come fonte energetica negli ultimi anni ha interrotto il graduale trend di decarbonizzazione dell’economia.

Emissioni per gas serra nel 2010, IPCC AR5 WGIII

Uno sguardo al futuro

Va da sé che senza alcun tipo di intervento aggiuntivo le emissioni continueranno a crescere. La traiettoria del businness as usual vede il superamento di 450 ppm CO2eq nelle concentrazioni atmosferiche di gas serra nel 2030 (attualmente stanno per raggiungere permanentemente i 400 ppm CO2), per arrivare fino a 1300 ppm nel 2100, con un aumento della temperatura superficiale media del globo stimato tra i 3.7°C e i 4.8°C rispetto al periodo preindustriale. Per avere sufficienti possibilità di mantenere l’aumento della temperatura entro la “soglia di sicurezza” dei 2°C, gli scienziati hanno calcolato che è necessario stabilizzare le emissioni per arrivare nel 2100 a concentrazioni comprese tra 450 e 500 ppm. Un’ipotesi realizzabile a condizione che le emissioni vengano ridotte o mantenute tra 30 e 50 GtCO2eq all’anno entro il 2030. I prossimi 15 anni saranno determinanti, sostengono gli scienziati, perchè ritardare interventi efficaci oltre il 2030 limiterà le opzioni a disposizione. Gli impegni di riduzione attuali (annunciati alla conferenza di Cancun, Messico, nel 2010) sono in linea con gli scenari che vedono la temperatura aumentare di circa 3°C nel 2100, quindi non sono sufficienti.

 

Le possibili soluzioni

Secondo l’IPCC, rispettare la soglia dei 2°C è ancora possibile ma richiede “importanti cambiamenti istituzionali e tecnologici”, in grado di abbassare le emissioni del 40-70% rispetto ai livelli del 2010 entro la metà di questo secolo e di ridurle quasi a zero nel 2100. Gli scienziati hanno considerato una “ampia gamma” di possibili soluzioni, dalle nuove (e vecchie) tecnologie alla trasformazione delle abitudini individuali e collettive. Per ogni settore (produzione e consumo di energia, trasporti, edilizia, industria, agricoltura e gestione delle foreste, sviluppo urbano) l’IPCC ha valutato ipotesi specifiche. La ricetta generale prevede miglioramenti “più rapidi” nell’efficienza energetica ed il passaggio dal 30 all’80% delle tecnologie a basse emissioni di carbonio (rinnovabili, nucleare e cattura e stoccaggio del carbonio, o CCS) nella produzione di energia entro il 2050. Come è stato scritto nella sintesi e ribadito durante la conferenza stampa a Berlino, ridurre le emissioni è possibile solo attraverso la cooperazione tra Stati e tra diversi settori. I cambiamenti climatici infatti “hanno le caratteristiche di un problema di azione collettiva su scala globale”, da affrontare in modo onnicomprensivo, includendo questioni di “giustizia, correttezza ed equità”. L’IPCC non ha voluto dare indicazioni specifiche su quali soluzioni siano preferibili, su chi e come deve farsene carico, ma ha messo a punto “una mappa” delle alternative possibili.

Efficienza
Viene considerata un fattore chiave per ridurre la richiesta di energia (e quindi le emissioni necessarie a produrla) senza compromettere lo sviluppo, soprattutto nel settore dei trasporti, della produzione industriale, dell’edilizia. In particolare per quest’ultimo, le misure di riqualificazione degli edifici esistenti e l’adozione di standard elevati per le nuove costruzioni si sono dimostrate molto efficaci dal 2007 ad oggi, riducendo del 50-90% l’energia utilizzata per riscaldare o raffreddare le abitazioni. L’efficienza energetica porta anche benefici aggiuntivi: abbassamento dei costi per il consumo di energia, meno inquinamento, maggiore tutela ambientale e miglioramento della salute pubblica.

Rinnovabili
Le tecnologie per produrre energia eolica, solare e idroelettrica hanno visto un “sostanziale miglioramento nelle prestazioni e nella riduzione dei costi” dal 2007 ad oggi, ad un livello tale da permetterne lo sviluppo su larga scala. Nel 2012 le fonti rinnovabili hanno prodotto circa metà della capacità energetica aggiuntiva a livello globale. Per raggiungere un aumento significativo nella percentuale di energia prodotta grazie a fonti rinnovabili è ancora necessario un supporto, diretto o indiretto, da parte delle istutuzioni nazionali ed internazionali, afferma l’IPCC.

Nucleare
Gli scienziati definiscono il nucleare come una fonte “adulta” che “potrebbe dare un crescente contributo alla produzione di energia a basse emissioni di carbonio”, anche se è in declino dal 1993. Piuttosto sbrigativamente, nella sintesi per decisori politici vengono elencati rischi ed ostacoli legati allo sviluppo e allo sfruttamento dell’energia nucleare: “rischi operativi, rischi legati all’estrazione dell’uranio, rischi finanziari e di regolamentazione, questioni irrisolte relative alla gestione delle scorie, preoccupazioni per la proliferazione di armi nucleari, opposizione dell’opinione pubblica”.

Geoingegneria: CCS e BECCS
Un capitolo controverso della sintesi riguarda il ruolo che potrebbero in futuro ricoprire le tecnologie di rimozione della CO2 (CDR, Carbon Dioxide Removal). Secondo l’IPCC, la cattura e stoccaggio del carbonio applicata ad impianti che utilizzano combustibili fossili (CCS) potrebbe garantire la stabilizzazione della concentrazione di gas serra entro i 450 ppm, e se combinata con lo sfruttamento di fonti energetiche vegetali (BECCS) potrebbe produrre “emissioni negative”.
Secondo gli scienziati, in assenza di tecnologie in grado di rimuovere il carbonio dall'atmosfera il target dei 2°C nel 2100 diventa praticamente impossibile tenuto conto del trend delle emissioni. Lo sviluppo di queste tecnologie è ancora in fase sperimentale, non sono stati accertati gli effetti ed i rischi associati ad uno sviluppo su larga scala, come la sicurezza degli impianti e dei depositi, o se sia possibile produrre la quantità di biomassa necessaria allo sviluppo BECCS senza compromettere la produzione di cibo e le risorse idriche.  Un rischio che l’IPCC associa anche allo sviluppo massiccio dei biocarburanti.

Gas come “combustibile ponte”
Negli scenari che vedono la concentrazione atmosferica di gas serra mantenersi entro 450 ppm nel 2100, produrre energia sfruttando il gas naturale (senza CCS) viene considerata una “bridge technology”. In questo caso, le emissioni da gas naturale crescerebbero fino al 2050 per poi calare nella seconda metà di questo secolo. Il gas (anche quello non convenzionale) sarà utile a ridurre le emissioni solo se andrà a sostituire gli altri combustibili fossili, ha specificato Ottmar Edenhofer, co-chair del Working Group III, durante la conferenza stampa a Berlino.

Ridurre i gas non-CO2
Secondo le stime dell’IPCC, dal 1970 metano, protossido di azoto e gas fluorinati (che hanno un potenziale di riscaldamento globale GWP superiore a quello dell’anidride carbonica) hanno contribuito al 25% delle emissioni antropogeniche. 

Ridurre i rifiuti (e trattarli meglio)
Rifiuti e acque reflue hanno prodotto 1.5 miliardi di tonnellate CO2eq nel 2010 e la percentuale di materiali riutilizzati o riciclati globalmente è ancora intorno al 20%. Per questo gli scienziati vedono la riduzione dei rifiuti, il riuso, il riciclo e, per ultimo, il recupero dell’energia come “opzioni importanti” per ridurre le emissioni prodotte direttamente nel processo di smaltimento. 

Riforestazione e agricoltura sostenibile
Ridurre le emissioni attraverso lo sfruttamento più intelligente del suolo è fondamentale.
Le tecniche disponibili sono la riforestazione, il contrasto alla deforestazione, un uso sostenibile dei terreni agricoli e dei pascoli, il recupero dei suoli degradati, la riduzione dello spreco di cibo. Misure politiche ed economiche: tagliare i sussidi ai combustibili fossili, sistemi cap-and-trade e carbon tax. Secondo l’IPCC, queste misure possono garantire un’effettiva riduzione delle emissioni, con risultati complessivi che variano a seconda delle condizioni specifiche e delle modalità con cui vengono applicate.   

QUANTO CI COSTA?

Le stime del rapporto dicono che politiche incisive per la riduzione delle emissioni porterebbero ad una riduzione media nella crescita globale dei consumi nell’ordine di -0.06% all’anno, rispetto ad un trend annuale senza mitigazione di 1.6-3%. Fare una classica analisi costi-benefici, includendo i costi di non-azione, è però impossibile, spiegano gli scienziati, dato che il costo degli impatti dei cambiamenti climatici include diversi gradi di rischio e di incertezza, e dal calcolo restano esclusi beni non quantificabili: vite umane, salute, benessere, danni agli ecosistemi marini e terrestri. Nella sintesi si accenna, con altri termini, alla questione dei cosiddetti “stranded assets”, ovvero gli investimenti in combustibili fossili che andrebbero persi in uno scenario di forte mitigazione (entro i 2°C), in cui circa due terzi delle riserve energetiche fossili non sarebbero sfruttabili (“unburnable”).
Secondo l’IPCC, le politiche di mitigazione potrebbero portare alla svalutazione e a minori profitti degli investimenti in fonti fossili, con effetti diversi nelle varie regioni del mondo e a seconda dei combustibili considerati.

Articoli correlati

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Perché ridiamo: capire la risata tra neuroscienze ed etologia

leone marino che si rotola

La risata ha origini antiche e un ruolo complesso, che il neuroscienziato Fausto Caruana e l’etologa Elisabetta Palagi esplorano, tra studi ed esperimenti, nel loro saggio Perché ridiamo. Alle origini del cervello sociale. Per formulare una teoria che, facendo chiarezza sugli errori di partenza dei tentativi passati di spiegare il riso, lo vede al centro della socialità, nostra e di altre specie

Ridere è un comportamento che mettiamo in atto ogni giorno, siano risate “di pancia” o sorrisi più o meno lievi. È anche un comportamento che ne ha attirato, di interesse: da parte di psicologi, linguisti, filosofi, antropologi, tutti a interrogarsi sul ruolo e sulle origini della risata. Ma, avvertono il neuroscienziato Fausto Caruana e l’etologa Elisabetta Palagi fin dalle prime pagine del loro libro, Perché ridiamo. Alle origini del cervello sociale (il Mulino, 2024):