Liberarsi dall’immondizia non è solo un’incombenza domestica. Anche il mondo microscopico delle cellule deve fare i conti con i rifiuti, proteine e organelli cellulari vecchi e non più funzionanti che occorre eliminare, pena pesanti conseguenze. E quando questo non accade nelle cellule cardiache, la conseguenza può prendere il nome di cardiomiopatia ipertrofica. Lo ha mostrato uno studio finanziato da Telethon condotto da alcuni ricercatori dell’Università di Padova e del Venetian Institute of Molecular Medicine (VIMM).
La ricerca, pubblicata sul Journal of Clinical Investigation, ha evidenziato nei topi il ruolo
di una proteina, coinvolta nello smaltimento dei rifiuti cellulari, nello sviluppo
di una patologia del tutto simile alla cardiomiopatia ipertrofica restrittiva.
Si chiama Atrogin-1 ed è presente nelle cellule della muscolatura liscia,
scheletrica e cardiaca. Il suo compito è individuare e segnalare le proteine,
non più funzionali alle attività cellulari e che necessitano di un ricambio, al
proteasoma, il sistema con cui vengono eliminate queste sostanze di scarto il
cui accumulo è tossico per la cellula.
Quest’ultima deve anche liberarsi di
mitocondri e altri organelli che, vecchi o danneggiati, non sono più in grado
di svolgere la loro funzione e lo fa tramite l’autofagia. «Anche qui», spiega
Marco Sandri, ricercatore dell’Istituto Telethon Dulbecco e professore
associato all’Università di Padova, «interviene Atrogin-1, segnalando per
l’eliminazione la proteina CHMP2B la cui sostituzione è fondamentale per il funzionamento
dell’autofagia».
Nei topi che non esprimono il gene di Atrogin-1, venendo a
mancare tale proteina, i sistemi di “pulizia cellulare”non funzionano più e
questo causa negli animali una patologia con le caratteristiche di una rara e
grave forma di cardiomiopatia ipertrofica, quella restrittiva. «Le cellule
cardiache che non riescono più a eliminare le scorie muoiono, quelle sane
rimaste devono lavorare di più per compensare la loro perdita e questo le fa
aumentare di dimensione», precisa Sandri.
Cellule cardiache più grandi e accumulo
di tessuto connettivale, dovuto alla morte di alcune di esse, danno origine ai
segni della cardiomiopatia ipertrofica: ispessimento e irrigidimento delle
pareti del ventricolo sinistro, che possono ostacolare il deflusso del sangue e
causare serie aritmie cardiache.
I ricercatori di Telethon ipotizzano possibili
mutazioni nel DNA che codifica per Atrogin-1 nella genesi delle cardiomiopatie
ipertrofiche, patologie cui già si attribuisce un’origine genetica legata ad
altri geni.
Queste malattie però possono essere anche conseguenza
dell’invecchiamento, dell’ipertensione o dell’uso di alcuni farmaci e anche in
queste forme secondarie il gene di Atrogin-1, secondo i ricercatori, potrebbe
avere un ruolo poiché viene regolato da stili di vita come l’esercizio fisico e
la dieta.
La scoperta fatta al VIMM getta luce sui meccanismi alla base delle
cardiomiopatie ipertrofiche con prospettive anche dal punto di vista clinico. «Nelle
prossime ricerche ci concentreremo sull’uomo per vedere se, nelle condizioni
che causano cardiomiopatia ipertrofica, Atrogin-1 e i suoi bersagli sono
alterati», conclude Sandri.
La ricerca potrebbe avere anche sbocchi in campo oncologico e aiutare a migliorare alcune terapie antitumorali. Certi chemioterapici, usati nella cura dei tumori del sangue, hanno come effetto l’inibizione del proteasoma. Tale azione però, se prolungata, causa l’accumulo cellulare di sostanze tossiche con conseguente aumento del rischio di cardiomiopatie ipertrofiche nei pazienti, la cui funzionalità cardiaca andrebbe attentamente monitorata.