fbpx Onde gravitazionali e onde mediatiche | Scienza in rete

Onde gravitazionali e onde mediatiche

Primary tabs

Read time: 5 mins

Lo scorso 17 marzo, John Kovac, radioastronomo dello Harvard Smithsonian Center for Astrophysics di Cambridge, Massachusetts, ha annunciato di aver scoperto, con suo gruppo di ricerca e grazie al telescopio BICEP 2 localizzato in Antartide, l’impronta delle onde gravitazionali generate dal Big Bang.
Il segnale di queste onde, ha detto Kovac, è contenuto in una speciale polarizzazione, detta B-modes, rilevata nella radiazione cosmica di fondo (CMB).
A proposito, sono esattamente 50 anni, da quando, nel 1964, Arno Penzias e Robert Wilson annunciarono, a loro volta, di aver trovato una radiazione fredda, nel campo delle microonde, che avvolge in maniera omogenea l’intera volta celeste. E così come la CMB di Penzias e Wilson venne salutata come la prova definitiva della validità della teoria del Big Bang di George Gamow – una teoria che nel ricostruire l’origine dell’universo prevedeva appunto l’esistenza di questa radiazione fossile e che da allora è stata eletta a Modello Standard della Cosmologia – le onde gravitazionali di John Kovac sono considerate da molti (ma non da tutti) come la prova definitiva della validità del modello dell’inflazione.
L’inflazione è una particolare evoluzione – superaccelerata – che avrebbe subito  l’universo nei suoi primissimi istanti di vita, appena dopo il Big Bang. L’inflazione è stata evocata per spiegare alcune caratteristiche del nostro universo attuale, compresa la straordinaria uniformità della CMB. Il guaio è che finora non era stata rilevata nessuna osservazione cruciale in grado di confermarla. Era (è) una teoria in cerca di validazione.
Bene, ma Kovac non ha annunciata di averla trovata, quella prova definitiva? Non possiamo rispondere a questa domanda. Per il semplice motivo che Kovac e il suo gruppo non hanno ancora pubblicato su una rivista scientifica con peer review l’articolo relativo alle loro misure. Insomma, la comunità scientifica non possiede i dettagli minimi indispensabili per un’analisi critica di quel clamoroso annuncio. Di più. Kovac ha declinato, finora, l’invito a dirci su quale rivista scientifica intende pubblicare i risultati delle sue ricerche.

Venerdì scorso la rivista Science ha pubblicato un articolo di un suo giornalista, Adrian Cho, in cui si riporta un altro annuncio, proposto questa volta da un fisico teorico, Raphael Flauger, in forze all’Institute for Advanced Study di Princeton, New Jersey. L’istituto dove ha lavorato Albert Einstein una volta lasciata la Germania, per intenderci.
Flauger dice che quella polarizzazione B-modes nel campo delle microonde è generata anche dalla polvere galattica. E che, dunque, John Kovac e i suoi avrebbero misurato un fenomeno tipico del nostro giardino di casa, la Via Lattea, che nulla avrebbe a che fare con la CMB e, dunque, con le onde gravitazionali fossili del Big Bang.

La scoperta dell’anno in astrofisica e cosmologia è dunque una bufala, frutto di una banale (?) errore?
Non possiamo dirlo. Perché anche Flauger non ha pubblicato nulla su riviste scientifiche con peer review. In pratica, smentisce con un semplice annuncio mediatico un altro annuncio mediatico. Di più. Ammette candidamente di aver effettuato le sua analisi sulla base di semplici slides carpite a un congresso dove si presentavano i risultati preliminari ottenuti dal satellite Planck proprio in questo campo.
È vero, ha risposto Kovac: la polvere galattica può generare quel tipo di polarizzazione della radiazione a microonde. Ma noi ne abbiamo tenuto conto e, in ogni caso, il segnale della polvere galattica è molto più piccolo da quello che abbiamo rilevato noi. Dunque, confermiamo il nostro annuncio.
Tutti, ora, siamo in attesa che siano proprio gli scienziati di Planck a sbrogliare la matassa. I risultati dell’indagine del satellite saranno pubblicati in ottobre. Resta il problema. È possibile fare annunci (e contro annunci) di questa portata senza seguire la procedura canonica della comunicazione della scienza e mettere la comunità dei pari in grado di valutarla criticamente?
La prima risposta è no. Ci troviamo di fronte u una forma patologica di comunicazione della scienza.
Tant’è che nessuno a tutt’oggi è in grado di dire con sufficiente affidabilità se quella di Kovac e collaboratori è una grande scoperta o un altrettanto grande bufala. Vicende del genere, dicono in molti, minano la credibilità della scienza.

E tuttavia la risposta alla nostra domanda potrebbe non essere affatto scontata. Per diversi motivi. In primo luogo oggi è molto più difficile che in passato tenere riservata una notizia, fosse anche non confermata. I gruppi di lavoro sono estesi e, dunque, meno controllabili. E poi le notizie viaggiano veloci e non c’è agenzia che riesca a conservare il segreto nell’era di wikileaks.
Ciò impone a tutti una trasparenza pressoché assoluta e comunque tempestiva. E, sebbene spesso siano dati per un mero bisogno di visibilità, anche nella scienza gli annunci non ancora rigorosamente documentati sono una necessità quasi ineludibile.
Non è detto, poi, che facciano male alla scienza. In fondo l’esercizio pubblico dell’ultimo ma non del meno importante dei valori mertoniani, lo scetticismo sistematico, non è nuovo nella scienza. Non fu proprio la polemica pubblica il modo scelto da Galileo Galilei per criticare la fisica e l’astronomia del matematico gesuita Orazio Grassi? E non ne sortì, da quella pubblica polemica un capolavoro assoluto della letteratura scientifica, Il Saggiatore? Il pubblico dibattito potrebbe essere utile – o, forse, essenziale – anche oggi, nell’era che il fisico teorico inglese John Ziman ha definito post-accademica della scienza. E assolvere persino a un ruolo pedagogico: insegnare al resto della società come esercitarlo, un sano spirito critico.
Resta un problema, tuttavia. Che i media e, in definitiva, la stessa opinione pubblica non sembrano ancora preparati a tutto questo. Così che, spesso, l’analisi critica e lo scetticismo sistematico si trasformano, in televisione e nelle piazze, nel mero strillo. In una zuffa.

La soluzione? Forse nessuno ce l’ha. Forse occorre che tutti – scienziati, giornalisti e cittadini comuni – si allenino sia nel condurre un dibattito civile sia nel prevedere i possibili effetti di un dibattito sopra le righe.

Articoli correlati

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Perché ridiamo: capire la risata tra neuroscienze ed etologia

leone marino che si rotola

La risata ha origini antiche e un ruolo complesso, che il neuroscienziato Fausto Caruana e l’etologa Elisabetta Palagi esplorano, tra studi ed esperimenti, nel loro saggio Perché ridiamo. Alle origini del cervello sociale. Per formulare una teoria che, facendo chiarezza sugli errori di partenza dei tentativi passati di spiegare il riso, lo vede al centro della socialità, nostra e di altre specie

Ridere è un comportamento che mettiamo in atto ogni giorno, siano risate “di pancia” o sorrisi più o meno lievi. È anche un comportamento che ne ha attirato, di interesse: da parte di psicologi, linguisti, filosofi, antropologi, tutti a interrogarsi sul ruolo e sulle origini della risata. Ma, avvertono il neuroscienziato Fausto Caruana e l’etologa Elisabetta Palagi fin dalle prime pagine del loro libro, Perché ridiamo. Alle origini del cervello sociale (il Mulino, 2024):