Le politiche e
le decisioni delle istituzioni europee sono alla ribalta, soprattutto in ambito
economico, ma se è facile focalizzare la propria attenzione sulla rigidità
della troika non è altrettanto semplice alzare lo sguardo e inquadrare tali
indicazioni nelle strategie che le determinano.
Periodicamente la Commissione Europa
fissa le proprie strategie di intervento in piani e programmi decennali: è nata
così nel 2000 la Strategia
di Lisbona seguita nel 2010 dalla Strategia Europa 2020. Sembra interessante
sottolineare come entrambe le strategie, che fissano gli obiettivi prioritari
che dovrebbero dettare le politiche delle istituzioni europee e di conseguenza
degli stati che ne fanno parte, evidenzino l’importanza dell’economia basata
sulla conoscenza, knowledge based,
come chiave per rendere l’Europa più competitiva, coesa, inclusiva, innovativa
e socialmente sostenibile.
A partire dalla Strategia di Lisbona, l’Europa pone fortemente l’accento sulla necessità di rafforzare l'occupazione, le riforme economiche e la coesione sociale nel contesto di un'economia fondata sulla conoscenza. Conoscenza che viene identificata come bene comune, un bene cioè la cui proprietà appartiene alla comunità che dà la possibilità ai suoi membri di usufruirne liberamente. I beni comuni possono essere materiali e immateriali: l’ambiente come ecosistema, le acque interne, le infrastrutture e i servizi di pubblica utilità, la sicurezza, la solidarietà, la fiducia sociale e non da ultima la conoscenza stessa, definita dal premio Nobel Elinor Ostrom, patrimonio fondamentale della comunità.
Le linee
programmatiche dettate dalla Strategia di Lisbona miravano a fare dell’Unione
Europea l’economia più competitiva e dinamica al mondo, in grado di coniugare
la crescita con nuovi e migliori posti di lavoro.
Gli obiettivi erano
ambiziosi: portare il tasso di occupazione al 70% e quello dell'occupazione
femminile al 60%, investire in ricerca e sviluppo il 3% del PIL della Ue entro
il 2010. Se tale Strategia presenta significativi caratteri di novità, perché
si configura come la prima agenda formalizzata per la competitività del sistema
Europa, non altrettanto massivi e rilevanti sono stati i suoi risultati.
Dal 2010 le
politiche europee sono state orientate dalla strategia Europa 2020 che nel
solco di quanto stabilito – e non raggiunto – dalla strategia precedente,
ribadisce tre ambiti prioritari per l’economia europea: la crescita dovrà
essere intelligente, sostenibile e inclusiva.
Gli obiettivi,
se possibile, sembrano essere ancor più ambiziosi. Entro il 2020:
- il 75% delle persone di età
compresa tra 20 e 64 anni deve avere un lavoro
- il 3% del PIL dell’Ue deve
essere investito in R&S
- ridurre le emissioni di gas serra del 20%, alzare del 20% la
quota di energia prodotta da fonti rinnovabili e portare al 20% il risparmio
energetico
- il tasso di abbandono
scolastico deve essere inferiore al 10%
- il 40% dei giovani deve avere
una laurea
- circa 20 milioni di persone in meno
devono essere a rischio di povertà
I tre punti
cardine della strategia per il raggiungimento di tali obiettivi vengono
declinati nell’ottica di un’economia della conoscenza. La crescita intelligente è basata sulla ricerca e sull’innovazione: è
necessario intervenire per colmare il gap con Stati Uniti, Giappone, Corea del
Sud, Cina incrementando gli investimenti in R&S, istruzione e digital
society.
La crescita sostenibile si fonda su un economia competitiva e verde
che sia in grado di combattere i cambiamenti climatici, produrre energia pulita
ed efficiente. La crescita inclusiva
contrasta la povertà anche promuovendo lo sviluppo di nuove competenze e
professionalità.
Come
raggiungere tali obiettivi? Prendiamo ad esempio Horizon2020, il nuovo Programma del sistema di finanziamento
integrato destinato alle attività di ricerca, attivo dal 1° gennaio 2014 fino
al 31 dicembre 2020.
Il programma
stabilisce le linee di finanziamento basate su tre pilastri fondamentali:
- eccellenza scientifica: per elevare il livello di eccellenza della base scientifica europea e garantire una produzione costante di ricerca a livello mondiale assicurando così la competitività dell'Europa a lungo termine;
- competitività industriale: per fare dell'Europa un luogo più attraente per investire nell’industria fondata sulla ricerca e sull'innovazione (compresa l'innovazione ecologica), promuovendo attività strutturate dalle aziende, industrie e servizi che producano beni e servizi vendibili;
- sfide per la società: incentivando attività che spaziano dalla ricerca alla commercializzazione, incentrandosi su quelle connesse all'innovazione, quali i progetti pilota, la dimostrazione, i banchi di prova e il sostegno agli appalti pubblici e all'adozione commerciale.
Tali linee
programmatiche premiano e incentivano la ricerca applicata, maggiormente
rispetto a quella di base, senza realmente prevedere la creazione di una
politica comune europea per la ricerca.
La sfida è
aperta, il gap da colmare è enorme tenendo conto che i dati di partenza non
sono affatto rincuoranti: le linee di sviluppo dettate da Europa 2020
dovrebbero permetterci di raggiungere un investimento in R&S pari al 3% del
PIL europeo. Una sfida importante tenendo conto che attualmente l’Europa
investe l’1,8% in tale settore (contro il 2,5% degli Usa e il 1,9% dell’Asia).
E l’Italia? Partiamo da un miserrimo 1,2% di investimento nel settore ricerca e
sviluppo, anche in questo caso dovremo correre per non rimanere, ancora una
volta, indietro.
VALERIA RATTI