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Vito Volterra, mio nonno

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Ho accettato di scrivere su mio nonno Vito Volterra anche se altri cugini più anziani avrebbero potuto farlo meglio di me ma in questo caso, trattandosi di una pubblicazione sul CNR e sulla sua storia, mi sono sentita in qualche modo autorizzata avendo trascorso la mia vita lavorativa proprio all’interno di questa istituzione.
Vorrei quindi, in queste pagine, ricordare il nonno anche se brevemente e da una prospettiva molto personale e famigliare, sia come matematico che come politico, e soprattutto come “organizzatore di scienza”. Non ho mai conosciuto il nonno Vito essendo nata nove anni dopo la sua morte, e non ho dunque un ricordo diretto.

Posso scrivere solo su ciò che mi è arrivato dai racconti di famiglia, soprattutto quelli di mia nonna Virginia Almagià che gli è sopravvissuta 28 anni e dei miei genitori e su quello che ho imparato leggendo i numerosi scritti su di lui o parte del suo epistolario. Ho avuto comunque il privilegio di conoscere molto bene le case che il nonno aveva abitato: l’appartamento di palazzo Fiano in via in Lucina 17 a Roma, dove ha vissuto per la maggior parte della sua vita, e il Villino in Ariccia dove i miei nonni si trasferivano da maggio ad autunno inoltrato per trascorrervi i mesi estivi, che ho da pochi anni riacquistato e restaurato.
Mi è sempre stato detto che il nonno era un matematico famoso. Appena eravamo in grado di leggere, ci veniva messo in mano il famoso libro di Jules Verne Dalla Terra alla Luna. La leggenda famigliare raccontava che, dopo la lettura di questo libro, il nonno avesse già mostrato le sue doti matematiche calcolando la traiettoria del razzo. Evidentemente la speranza era che qualcuno di noi nipoti potesse mostrare analoghe attitudini. Io, che pure ero una divoratrice di romanzi, avevo trovato il libro noiosissimo e non ero stata ispirata in nessun modo dalla sua lettura. Anche se non mostravamo speciali doti per la Matematica, si parlava spesso in famiglia della teoria “prede e predatori” ma in maniera molto elementare facendo vari esempi tratti dal mondo animale.
A queste “spiegazioni facilitate” intervenivano spesso lo zio Umberto (D’Ancona) e la zia Luisa (la figlia maggiore di mio padre). Avrei scoperto solo molti anni dopo, leggendo libri seri, che erano stati proprio loro a indurre il nonno a occuparsi del problema del progressivo calo dei pesci dell’Adriatico e quindi in qualche modo gli ispiratori della teoria. Come tutti i miei tre cugini, ho frequentato le medie al “Tasso” per avere come professoressa di matematica Emma Castelnuovo, figlia del grande matematico Guido Castelnuovo. Emma era un’insegnante eccellente, che riusciva ad affascinare i propri alunni, ma io ero sempre terrorizzata che scoprisse una qualche mia incapacità con i numeri.
La scelta del “Tasso” non era stata casuale: lo strettissimo legame tra il nonno e gli altri matematici italiani continuava anche dopo che i protagonisti erano morti.
I miei genitori erano molto amici dei figli di Castelnuovo (soprattutto di Gina), l’estate frequentavamo in montagna la casa dei Levi Civita e i miei cugini Volterra erano cugini degli Enriques. Il padre Gustavo (il figlio più piccolo dei nonni), aveva infatti sposato Emilia Cosattini e sua sorella Emma aveva sposato a sua volta Giovanni Enriques, figlio del grande matematico Federigo Enriques.
Credo che questo clima, e soprattutto l’insegnamento di Emma, mi abbia trasmesso l’idea che in qualche modo l’Aritmetica e la Geometria non sono scienze astruse ma qualcosa di presente e utile nel mondo che ci circonda.
Soprattutto non scienze lontane dalle altre scienze: la cultura letteraria e quella scientifica sono intrecciate indissolubilmente. Molti anni dopo, sfogliando il bel volume di Zanichelli curato da Raffaella Simili, ho potuto leggere il discorso pronunciato dal nonno nel 1907 in occasione della rifondazione della Società Italiana per il Progresso delle Scienze (SIPS, sorta nel 1839 e defunta nel 1875) che avrebbe dovuto essere “una vasta associazione che raccolga i cultori di tutte le discipline”. Fin d’allora la sua visione che coniugava gli aspetti teorici con quelli pratici della scienza è espressa in modo chiarissimo: “Si può affermare che il concetto della scienza e il valore di essa presso il pubblico sono oggi profondamente cambiati rispetto solo a un mezzo secolo fa. Infatti le più moderne scoperte, quelle stesse a cui la maggior parte della nostra generazione ha assistito, furono viste da tutti (a differenza di quel che avveniva più frequentemente pel passato) nascere e svilupparsi nei gabinetti scientifici e di qui diffondersi nelle officine e invadere il campo della vita pratica”.

Un liberale antifascista

Sul nonno politico ho saputo ben poco, se non che era stato membro del Senato. La signora Gualda Massimi, la sua fida bibliotecaria, che ha continuato a frequentare via in Lucina anche nel dopoguerra per aiutare la nonna Virginia a riordinare le sue carte, lo chiamava sempre il Senatore. Era una signora con gli occhiali tondi, sempre vestita semplicemente ma con grande eleganza, con una crocchia di capelli bianchi. Giovanissima, aveva affiancato il nonno negli ultimi anni e nutriva per lui una totale venerazione. Anche dopo la morte della nonna, nel 1968, ha continuato a frequentare casa nostra schedando tutti i libri di mia madre e prendendo con lei il tè delle 5, una tradizione che veniva da via in Lucina. Quando parlava del Senatore, ancora le luccicavano gli occhi.
Non solo dobbiamo a lei l’ordine straordinario con cui è stato ritrovato l’epistolario (poi depositato all’Accademia dei Lincei) ma soprattutto dobbiamo al suo straordinario coraggio il salvataggio della nonna, che nei primi giorni dell’occupazione tedesca era stata nascosta in casa Massimi. Il nonno era un liberale antifascista, come cercava di spiegarmi mio padre: posizione che per me, totalmente immersa allora nel movimento del ’68, era difficilissima da capire. Sapevo anche che era uno dei pochi che non aveva giurato e per questo era stato allontanato dall’insegnamento e da tutte le accademie italiane.

Nel 1960 ho partecipato per la prima volta a una manifestazione ufficiale sul nonno. Era la commemorazione ufficiale dell’Accademia dei Lincei per il centenario della nascita. Vito Volterra era stato legato a questa Accademia praticamente per tutta la sua vita (eletto socio corrispondente nel 1888, divenne socio nazionale nel 1899, vicepresidente dal 1920 al 1923 e presidente fino al 1926), eppure negli anni bui del fascismo la posta a lui diretta veniva rispedita al mittente come se nessuno lo avesse mai conosciuto, malgrado tutti conoscessero benissimo la sua residenza. Quel giorno io non sapevo tutto questo, avevo 11 anni e avevo il compito di stare accanto alla nonna già anziana. Finiti tutti i discorsi e la cerimonia, una fila di persone si diresse verso la nonna per salutarla e omaggiarla. La nonna rispondeva ad alcuni di questi saluti, ma in moltissimi casi si voltava dall’altra parte senza porgere la mano.
Ero stupita: non avevo mai visto un tale comportamento da parte sua e non capivo assolutamente cosa stesse succedendo. Solo più tardi mi spiegarono che la nonna rispondeva solo al saluto dei pochi che non li avevano lasciati soli nel terribile ventennio fascista. Ricordava molto bene i molti che avevano voltato le spalle al nonno e a tutta la famiglia e che non avevano avuto neppure il coraggio di farsi vivi al momento della sua scomparsa (11 ottobre 1940), che così era stata comunicata in un fonogramma della Questura di Roma: “Stamane alle ore 4,30 nella sua abitazione in via in Lucina 17 è deceduto il senatore Volterra Vito fu Abramo di razza ebraica”.

Muoiono gli imperi, non la Matematica

Al funerale avevano partecipato davvero in pochi e così ricorda quel giorno mia madre, Nella Levi Mortera, in un suo scritto di memorie Ritorno alla Libertà: “Mi rivedo nell’ottobre del ’40 in un cimitero di campagna, dove abbiamo accompagnato mio suocero, che ci ha lasciato per sempre nel periodo più tragico, quando nemmeno uno spiraglio di luce poteva far pensare che fosse possibile il ritorno alla libertà. Egli, (…) non è vissuto tanto da assistere almeno al crollo delle dittature! Egli, che alla libertà ha tutto sacrificato, dalla carriera universitaria alla partecipazione alla vita politica, piuttosto che giurar fedeltà a un regime che egli avversava e deprecava con tutte le sue forze, ci ha lasciato senza aver rivisto il momento che ha tanto agognato in tutti questi anni! (…) Quando giungerà il momento del ritorno alla libertà, non potremo goderlo pienamente, giacché egli che più di tutti lo avrebbe meritato e più avrebbe desiderato assistervi, non sarà con noi a godere la gioia di quell’istante”.
Il cimitero di campagna era quello di Ariccia.
Quando il feretro era arrivato in paese, gli ariccini, presenti, loro sì, in gran numero, avevano preso la cassa sulle spalle e l’avevano accompagnato nel cimitero dove una tomba in stile romano aveva accolto le sue spoglie e più tardi ha accolto quelle dei suoi figli e delle sue nuore. Tutta la mia famiglia non ha mai dimenticato questo gesto; d’altra parte gli abitanti di Ariccia non avevano dimenticato tutti gli aiuti che il nonno aveva cercato sempre di dare al piccolo paese dei Castelli Romani come testimonia la corrispondenza tra lui e le autorità preposte, sindaco e perfino il podestà, che nel corso degli anni lo ringraziano per essersi speso per far ottenere al paese nuove condutture o l’energia elettrica. Una foto che tutti noi, figli e nipoti, conserviamo gelosamente riporta, immediatamente sotto la sua immagine, una frase scritta e firmata di suo pugno, che ben caratterizza il pensiero che deve averlo sostenuto negli anni bui: “Muoiono gli imperi, ma i teoremi d’Euclide conservano eterna giovinezza”.
Se dunque la mia conoscenza dei diversi aspetti che hanno caratterizzato la personalità del nonno è stata indiretta e spesso tardiva, ancor più lo è stata la scoperta che era stato proprio lui il fondatore e primo presidente del CNR. Venendo da una famiglia di accademici – il nonno, mio padre professore di Diritto romano, lo zio Enrico (il terzo figlio) professore di Ingegneria – ho cercato di rifuggire le tradizioni di famiglia e, appena vinto il concorso da ricercatore all’Istituto di Psicologia, dove avevo preparato la tesi, mi sono immediatamente dimessa da contrattista in Filosofia della scienza presso l’Università “La Sapienza” per entrare nel CNR dove sono rimasta fino alla fine della mia carriera. La mia scelta era determinata anche da una serie di fattori, tra cui la possibilità che all’epoca il CNR offriva di occuparsi di discipline di frontiera (come era la Psicologia in Italia) o che nascevano a cavallo di discipline più note e stabilizzate (come era la Psicolinguistica) e soprattutto perché dava la possibilità di svolgere ricerca sperimentale e applicata, attività impossibile nell’ambito della Facoltà di Lettere e Filosofia in cui mi trovavo. Per diversi anni ho totalmente ignorato che anche lì, nell’Istituto di Psicologia del CNR (poi Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione), non ero sfuggita al destino famigliare. Ricordo perfettamente il giorno in cui Raffaello Misiti, il nostro mitico direttore, mi chiamò nel suo studio e mi mostrò un opuscolo che si intitolava Vito Volterra: fondatore del CNR. Invece di reagire in modo positivo, rimasi allibita e incapace di proferire parola. Non avrei saputo davvero cosa dire: ignoravo totalmente il fatto. A mia parziale discolpa, non ero la sola a ignorare che il nonno avesse fondato il Consiglio Nazionale delle Ricerche. La damnatio memoriae del periodo fascista faceva sentire ancora i suoi effetti. Se mi avessero chiesto un nome, avrei risposto, probabilmente come la maggioranza: Guglielmo Marconi. Non so in che anno sia stata intitolata l’aula Vito Volterra in sede centrale (peraltro molto più piccola della Marconi) ma penso che sia avvenuto in epoca relativamente recente.

La scoperta mi ha però indotto ad approfondire la questione entrando in stretto contatto con Raffaella Simili e Giovanni Paoloni, autori di una monumentale storia del CNR, fino ad arrivare negli ultimi anni a partecipare a convegni e a presentare brevi relazioni sul nonno. Mi limito a riportare qui alcuni estratti per me straordinariamente significativi perché legati alla mia “scelta di vita CNR”, dal Primo Statuto approvato dal Ministero della Pubblica Istruzione e promulgato nell’ottobre del 1924:
Finalità espresse nell’art. 2:
a. (…) coordinare ed eccitare l’attività nazionale nei differenti rami della scienza e delle sue applicazioni;
b. (…) mantenersi in contatto con i diversi enti statali per tutte le questioni relative alle scienze e alle loro applicazioni pratiche, la cui soluzione sia interessante e utile al Paese;
c. (…) quando i mezzi lo consentano, (…) gestire ed eventualmente istituire laboratori scientifici per ricerche di carattere generale o speciale.

Nei ricordi di una Nobel

Vorrei ancora ricordare e ringraziare Rita Levi-Montalcini perché, grazie a lei, ho appreso molti altri particolari sulla vita del nonno. Nel periodo in cui scriveva il suo bellissimo ricordo in Senz’olio contro vento, mi telefonava alle ore più disparate (soprattutto all’alba) perché le venivano in mente dubbi su circostanze e date alle quali voleva poter dare immediatamente delle risposte; io cercavo di aiutarla studiando e documentandomi. Riporto quindi qui le bellissime parole con cui la Levi-Montalcini chiude il suo saggio sul nonno: “Quale era il Dio con il quale Volterra era in comunione? Era il Dio di Spinoza e di Einstein. Non un Dio che punisce e premia, ma che si rivela nelle molteplici straordinarie facoltà della mente umana, da quelle che si esprimono in una cantata di Bach a quelle che erano state elargite in così alta misura a Vito: la capacità di penetrare i misteri dell’Universo, la tolleranza delle altrui debolezze e la gioia di un’inesauribile vena creativa”.

Virginia Volterra

Tratto da Scienza & società - Novant'anni di CNR 1923-2013

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