Il 3 novembre 2010 Jack Newton e Tim Puckett, due astronomi non professionisti partecipanti al progetto di ricerca di supernovae chiamato Puckett Observatory World Supernova Search, scorgono una di queste esplosioni stellari nella galassia UGC 5189A, distante 160 milioni di anni luce dalla Terra in direzione della costellazione del Leone. Immagini precedenti raccolte da un telescopio automatizzato delle Hawaii permettono agli astronomi di scoprire che in realtà l’esplosione si è accesa all’inizio di ottobre. Fin dalle prime rilevazioni appare evidente come SN 2010jl - questo il nome in codice della supernova - sia particolarmente luminosa e si stima che alla sua origine vi possa essere la dirompente esplosione di una stella di almeno una quarantina di masse solari. Le successive osservazioni di Chandra, l’osservatorio orbitante della NASA, indicano che si è in presenza di una delle più luminose supernovae mai osservate nel dominio X. All’origine di questa estrema luminosità vi sarebbe l’intensa interazione delle onde d’urto generate dalla supernova con il bozzolo di gas espulso dalla stella nelle fasi evolutive che hanno preceduto la sua fine pirotecnica. L’eccezionalità della situazione fa sì che SN 2010jl venga tenuta d’occhio dagli astronomi, che confidano di strappare a questo cataclisma cosmico qualcuno dei misteri che avvolgono la violenta fine delle stelle massicce.
Nei giorni scorsi, sulle pagine di Nature, è stato pubblicato un importante studio basato su SN 2010jl (qui il paper) che probabilmente riesce a spiegare uno di questi misteri, quello della polvere cosmica. Da tempo gli astronomi sono piuttosto sicuri che all’origine dei grani di silicati e carbonati - ingredienti fondamentali perché si possa giungere alla costruzione di oggetti planetari come la nostra Terra - vi siano le esplosioni delle supernovae, ma restava ancora irrisolto il problema di come quei grani potessero condensarsi e crescere. I resti di supernova, infatti, sono caratterizzati da condizioni ambientali estremamente violente e distruttive, scenario che mal si concilia con il graduale e progressivo aggregarsi delle particelle eventualmente prodotte a seguito dell’esplosione stellare. Christa Gall (Aarhus University - Danimarca) e i suoi collaboratori hanno accuratamente seguito l’evoluzione di SN 2010jl compiendo nove osservazioni con cadenza mensile immediatamente dopo la sua scoperta e ritornando a esaminare la scena del crimine due anni e mezzo più tardi. Per queste osservazioni hanno messo di mezzo i pezzi da novanta: il Very Large Telescope dell’ESO e lo spettrografo X-shooter. Oltre all’estrema sensibilità che lo caratterizza, X-shooter ha il suo punto di forza nella capacità di raccogliere contemporaneamente la radiazione a differenti lunghezze d’onda, una caratteristica che ha consentito ai ricercatori di avere il quadro completo di come la polvere reagisce alla radiazione che la investe. Il confronto tra le differenti osservazioni ha permesso ai ricercatori non solo di scoprire che la formazione della polvere inizia immediatamente dopo l’esplosione della supernova e prosegue per un lungo periodo di tempo, ma anche di determinare le dimensioni dei grani.
E sono proprio le dimensioni la sorpresa maggiore. Nel denso materiale che circondava la stella, espulso dall’astro prima della fase di supernova, l’onda d’urto dell’esplosione ha infatti prodotti grani di polvere con dimensioni superiori al micrometro (millesimo di millimetro). Sono queste dimensioni - sorprendentemente elevate per gli standard della polvere cosmica - il fattore che riesce a garantire la sopravvivenza dei grani in quell’ambiente così ostile.
La formazione della polvere, comunque, non si esaurisce nell’arco di qualche mese a ridosso dell’esplosione. Alcune centinaia di giorni dopo quella produzione iniziale, infatti, si innesca un secondo stadio di produzione, un processo accelerato che, se venisse mantenuto il tasso di produzione che emerge dalle osservazioni, in 25 anni porterebbe ad accumulare una quantità di polvere pari alla metà della massa del Sole. Una autentica esplosione di polvere osservata anche in precedenti supernovae, per esempio SN 1987A.
Non ci deve sorprendere, insomma, che la generazione di stelle che viene alla luce dopo una supernova - magari innescata proprio dall’esplosione - possa disporre di una quantità di polvere sufficiente a permettere loro di assemblare senza fatica pianeti rocciosi. D’altronde è quello che è capitato dalle nostre parti quattro miliardi e mezzo di anni fa…