Niente di
nuovo sotto il sole, anzi le nuvole ricolme di pioggia. Era il 4 novembre del
1966 quando l’Arno invase Firenze e gran parte della Toscana mentre l’Ombrone
sommergeva Grosseto. Né fu solo la Toscana. Anche il Trentino e il Veneto, fra
le altre, risentirono pesantemente delle piogge e dello straripamento dei
loro fiumi.
Quella data
fa parte della storia dei disastri alluvionali d’Italia, ma non è certo
l’unica.
Viene dopo le esondazioni del Po in Polesine nei primi anni Cinquanta;
l’alluvione a Salerno del 1954 e prima della lava di fango a Sarno del 1998 e
di Genova.
Per citare solo alcuni dei disastri, generalmente novembrini, che fanno parte
della triste storia del dissesto idrogeologico nel nostro Paese.
Al
verificarsi di questi eventi, immediatamente si levano voci di protesta, ma
soprattutto rumoroso è il palleggio delle responsabilità e l’attribuzione delle
colpe: alla natura innanzitutto, a chi ha governato in precedenza subito dopo. La stampa quotidiana riempie le pagine dei giornali.
Qualche
titolo? “In Italia come ai tropici
nubifragi e trombe d’aria così il clima diventa estremo” (Elena Dusi, La Repubblica 28 agosto 2013); "Quei 52 miliardi persi nell’Italia che
frana. E il governo al territorio dà solo 30 milioni" (Gian
Antonio Stella, Il Corriere della sera 20
ottobre 2013); “Il paese
ignorato” (Salvatore Settis, La Repubblica 1 febbraio 2014); “La
cura che manca all’Italia dei disastri. Le frane sono 13 volte quelle dell’800”
(Gian Antonio Stella, Il Corriere della sera 2 febbraio 2014).
Sono alcuni dei tanti titoli che in periodi diversi nei soli ultimi due anni e prima del novembre 2014 parlano della stessa cosa:
la fragile Italia dove si muore inondati dall’acqua e sepolti dalle frane senza
che la natura abbia particolari responsabilità. Responsabilità che significano nel migliore
dei casi ignoranza del paese che governano (come denunciava Italo Calvino
qualche decennio fa auspicando l’insegnamento obbligatorio della Geografia per
ministri e sottosegretari); nel peggiore e più
realistico, mancanza di lotta all’abusivismo edilizio (invece più volte
condonato), assenza di una politica del territorio che imponga il rispetto
della fragilità dei luoghi; assenza di manutenzione dei corsi d’acqua.
Una
ulteriore dimostrazione dell’ignoranza la danno due comunicati dell’ANSA: “Dissesto idrogeologico. Il capo della Protezione
civile Gabrielli: persi venti anni per strada, emergenza non è finita” (11
novembre)”; “Emergenza maltempo. Renzi: venti” (17
novembre) .
Venti anni? Capisco
la giovane età di alcuni governanti, ma la storia e la geografia non si
conoscono solo per averle vissute. A quanti anni fa risalgono i drammatici
eventi che prima ricordavo? E se aggiungiamo il Vajont (1962)? e Stava
(1985)?
Sono decenni
di incuria non solo del territorio, ma anche della gran mole di studi e
ricerche promossi, finanziati e prodotti negli ultimi cinquant’anni: primo fra
tutti il complesso di volumi della Commissione
De Marchi successivo alla sommersione di Firenze del 1966 (novembre,
naturalmente). Per non parlare della
monumentale opera sulle frane in Italia di Roberto
Almagià (1907-1908).
Perfino
tutti i ministri dell’Ambiente che si sono succeduti dopo la Prestigiacomo, e
cioè Clini, Orlando e Galletti, si sono allarmati per le tragedie vissute anno
dopo anno e più volte all’anno, invocando e proponendo grandi investimenti per avviare
a soluzione il problema.
Ricordo che
Corrado Clini in una lunga lettera al Il
Corriere della Sera (Rischio sismico e idrogeologico. Torniamo a investire
sul territorio, 28 marzo 2012)
sottolineò quanto poco si fa per prevenire: “Pur potendo disporre di serie
storiche che danno evidenza della fragilità del territorio, poco e nulla si è
fatto per prevenire e per farlo in una dimensione sistemica. Questo
ragionamento naturalmente non vale solo per i terremoti ma anche per le
alluvioni e i fenomeni meteorologici estremi. Rischio sismico e dissesto
idrogeologico sono due facce della stessa medaglia.”
Due facce
che, solo per ricordare quanto accaduto dalla fine del 2011 a novembre 2014
significano le alluvioni nelle Cinque Terre e Genova, il terremoto in Emilia e,
poi, ancora acqua a Genova, a Milano, in Piemonte, in Sicilia.
Per evitare
i morti e i danni che ne sono conseguiti si sarebbero dovute orientare da tempo
politiche e misure per la protezione delle zone più vulnerabili.
Ma, come ha rilevato ancora l’ex Ministro,
“Purtroppo quello che è stato fatto, come per le aree a rischio sismico, è poco
e frammentario, sempre condizionato da programmi e visioni di breve periodo che
hanno privilegiato la logica dell`emergenza gestita con poteri «straordinari» a
quella della programmazione degli usi del territorio sostenuta dalla
responsabilità del governo ordinario.”
Che dire? Se lo diceva un ministro e un ministro dell’ambiente, ci sarebbe stato da aspettarsi che, di conseguenza, le politiche dell’ambiente e del territorio stessero per registrare una svolta. Eppure nell’elenco delle “grandi opere” che il Governo si proponeva di realizzare o portare a compimento non un euro risultava destinato alla più grande delle opere pubbliche – veramente pubbliche perché di pubblica utilità – che consiste nella messa in sicurezza del territorio.