fbpx Vaccini, allarmi e latitanza della politica | Scienza in rete

Vaccini, allarmi e latitanza della politica

Tempo di lettura: 5 mins

La comunità scientifica non ha compreso la sentenza con cui il tribunale di Milano riconosce nel vaccino esavalente Infarix Hexa Sk una concausa dell’insorgere dell’autismo in un bambino di 9 anni e la conseguente ingiunzione al Ministero della Salute di risarcirlo con un indennizzo vita natural durante, cosi come si trova messa in scacco dall’ondata di allarmi conseguente alle presunte morti da vaccino influenzale che riempiono le pagine dei giornali in queste ore, e che fa pensare a una sorta di contagio mediatico più che all'effetto avverso di un farmaco.

Molti ricercatori non hanno compreso quella sentenza per una serie di motivi. Il primo dei quali è che non esiste in tutta la letteratura scientifica internazionale una sola prova che ci sia una qualche correlazione tra la somministrazione di un vaccino e l’insorgere dell’autismo. Anche perché, come hanno spiegato su Scienzainrete Antonio Persico e Maria Luisa Scattoni, l’autismo non è una malattia specifica ma la manifestazione di quadro complesso di condizioni definite dai disturbi dello spettro autistico.

L’associazione tra vaccini e disturbi dello spettro autistico nasce nel 1998, quando un chirurgo inglese, Andrew Wakefield, pubblica su un’accreditata rivista medica, The Lancet, un articolo (The Lancet, Volume 351, Issue 9103, Pages 637 - 641, 28 February 1998) in cui sostiene che la somministrazione di MPR (il vaccino trivalente contro morbillo, parotite e rosolia) può provocare autismo e anche malattie intestinali.
Dopo questo articolo nessun ricercatore al mondo è riuscito a trovare la correlazione denunciata da Wakefield. Anzi sono sorti forti dubbi sul modo in cui il medico aveva ottenuto i suoi dati. In breve, nel 2010 The Lancet ha ritirato l’articolo originario dichiarando che era basato su dichiarazioni disoneste. Nello stesso anno Wakefield è stato radiato dal Medical Register del Regno Unito e non può più praticare la professione medica. Nel 2011 un’altra rivista autorevole, il British Medical Journal, ha definito la ricerca di Wakefield una frode elaborata.
Ma, al di là delle vicende dell’ex medico inglese, ciò che conta è che nella letteratura scientifica internazionale non esiste alcuna prova documentata che correli la somministrazione di un vaccino all’autismo (o meglio, ai disturbi dello spettro autistico).
Sorge spontanea, pertanto, la domanda: su che base i magistrati di Milano hanno emanato la loro sentenza? E, alla luce di quando è successo di recente con la vicenda Stamina e meno di recente con la vicenda Di Bella, su che base i magistrati italiani pronunciano con una certa frequenza sentenze in materia di salute e di ricerca che stridono fortemente con le conoscenze scientifiche?

Molti puntano l’indice contro “l’invadenza della magistratura”, o meglio, contro una certa tendenza di molti magistrati italiani a invadere il campo della scienza. Quando questa tendenza si combina con una mancanza di cultura scientifica avviene il cortocircuito e i magistrati pronunciano sentenze in materia di salute o di ambiente o d’altro senza fondamento scientifico. Di qui la doppia proposta: da un lato contenere l’invadenza facendo in modo che i magistrati attingano necessariamente al meglio delle conoscenze scientifiche; dall’altra lavorare per aumentare la cultura scientifica dei magistrati.
Nessun dubbio che una stretta (e  vincolante) collaborazione tra magistratura e comunità scientifica sia necessaria e che una crescita della cultura scientifica di chi si pronuncia in nome del popolo italiano sia auspicabile.
Ma se gli auspici e le proposte si fermano a questo, si rischia di concentrarsi sul dito che la indica e di perdere di vista la luna alla quale dobbiamo guardare. E la luna è la “latitanza della politica”. O meglio, il mancato intervento del legislatore.

Il caso Di Bella, con il pesante intervento di qualche pretore, risale a venti anni fa. La vicenda risultò incomprensibile alla comunità scientifica, nazionale e non. Ma  ebbe almeno un merito: rese evidente a tutti che non è più possibile, se mai lo è stato, lasciare che a sbrogliare i nodi al confine tra scienza e società sia il libero convincimento del singolo magistrato o del singolo funzionario ministeriale. La complessità del rapporto tra scienza e società rende necessaria la compartecipazione al più alto livello possibile della comunità scientifica, secondo modalità regolate per legge. Altrimenti i rischi sociali sono altissimi.

Prendiamo a esempio ciò che sta avvenendo in queste ore con il vaccino antiinfluenzale Fluad, sospettato di essere concausa della morte di oltre una decina di persone. Di fronte a un medesimo allarme – il rischio, non ancora provato, che alcuni lotti del vaccino antinfluenzale possa avere tragici effetti collaterali – le regioni italiane stanno andando in ordine sparso. In una regione il vaccino viene somministrato, in un’altra viene ritirato e in un’altra ancora è l’intero programma di vaccinazione viene bloccato. Tutti vanno in ordine sparso. In questo modo si alimenta una psicosi che sta portando molte persone a rinunciare alla vaccinazione. Ma noi sappiamo che le complicanze dell’influenza determinano ogni anno la morte evitabile di centinaia, se non di migliaia di italiani. O, detta in altri termini, se la campagna di vaccinazione fallisce a causa di un allarme che si rivelasse infondato o mal gestito, sarebbero moltissimi gli italiani che andrebbero incontro a una morte evitabile.

Chi si assume questa responsabilità? O meglio, una responsabilità così grande, può essere lasciata al caso e al convincimento del singolo presidente di una regione? Non sarebbe necessario un piano nazionale che, in caso di allarme sanitario e/o ambientale, in maniera automatica e vincolante preveda l’intervento anche della comunità scientifica? E non dovrebbe essere il Legislatore a definire i termini di questa necessaria compartecipazione?  
Dopo la vicenda Di Bella ci sono state altri casi che hanno lasciato perplesso il mondo della ricerca. L’ormai annoso ma non risolto caso Stamina. Il caso dell’Aquila. Ora la sentenza sull’associazione tra vaccini e autismo. E tuttavia manca ancora una legge quadro che regoli i rapporti tra diritto e ricerca lungo i confini sempre più estesi tra scienza e società.
In tutti questi anni il Parlamento nazionale non è intervenuto. Ma in assenza di un sistema chiaro di regole che assegni precise responsabilità è inevitabile che tutti – magistrati, amministratori, mass media, singoli cittadini – procedano in ordine sparso. Esponendo il paese ai venti della demagogia e tutti i cittadini a rischi altissimi. La latitanza della politica è ormai insostenibile.

Articoli correlati

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Siamo troppi o troppo pochi? Dalla sovrappopolazione all'Age of Depopulation

persone che attraversano la strada

Rivoluzione verde e miglioramenti nella gestione delle risorse hanno indebolito i timori legati alla sovrappopolazione che si erano diffusi a partire dagli anni '60. Oggi, il problema è opposto e siamo forse entrati nell’“Age of Depopulation,” un nuovo contesto solleva domande sull’impatto ambientale: un numero minore di persone potrebbe ridurre le risorse disponibili per la conservazione della natura e la gestione degli ecosistemi.

Nel 1962, John Calhoun, un giovane biologo statunitense, pubblicò su Scientific American un articolo concernente un suo esperimento. Calhoun aveva constatato che i topi immessi all’interno di un ampio granaio si riproducevano rapidamente ma, giunti a un certo punto, la popolazione si stabilizzava: i topi più anziani morivano perché era loro precluso dai più giovani l’accesso al cibo, mentre la maggior parte dei nuovi nati erano eliminati.