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Ebola, visto da vicino | Fra due mondi

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“Un grande, grande sollievo”. Questo è il commento di Roberto Satolli quando parliamo di Fabrizio Pulvirenti, il medico italiano di Emergency che aveva contratto Ebola in Sierra Leone e che ora è guarito. “A Lakka abbiamo lavorato insieme, io non sono mai entrato in zona rossa, dove invece lui andava, però abbiamo avuto modo di interagire e confrontarci spesso. Ovviamente, le sue condizioni di salute sono state un pensiero costante durante l’isolamento.”

Roberto è tornato il 23 novembre dalla Sierra Leone, e ha passato i successivi 21 giorni in isolamento e sempre in contatto con l’ufficio di igiene della sua ASL, come precauzione per la possibile esposizione al virus. In caso di infezione, infatti, i sintomi si manifestano dopo un’incubazione di circa una settimana, con estremi da due giorni a 21. Isolamento che Roberto ha condotto in un monolocale adiacente a casa sua, dal quale è finalmente uscito due settimane fa per tornare alla vita normale, a casa e sul lavoro.

“Devo dire che questo periodo di quarantena non è stato pesante,” mi racconta al telefono, mentre aspetta il treno che lo riporterà a casa da Reggio Emilia, dov’è andato a discutere proprio del protocollo di sperimentazione dell’amiodarone al quale ha contribuito insieme ai medici di Emergency. “Tanto per cominciare, ho lavorato quasi tutto il tempo. Pensavo di avere più tempo per riorganizzare i miei pensieri e le mie sensazioni, magari riordinandole in un diario ma alla fine, fra mail, telefonate e protocolli sono stato sempre impegnato.” Benché sia tornato, infatti, il suo lavoro è tutt’altro che finito. La notizia recente è che il comitato etico della Sierra Leone ha sollevato critiche sul trial clinico e quindi si sta ora lavorando per rispondere a queste obiezioni. “È ancora presto per commentare,” mi dice quando gli chiedo un’opinione al riguardo. Torniamo così a parlare della sua quarantena.

“L’altro motivo per cui la quarantena non mi è risultata pesante è che, tutto sommato, avevo bisogno di un periodo di decompressione. L’esperienza di Lakka è stata molto intensa, sia dal punto di vista lavorativo sia da quello emotivo. Ero già stato in Africa ma da turista, in ben altre zone e situazioni, e l’impatto è stato forte fin dai primi giorni.

Inevitabilmente il discorso torna sul collega medico di Emergency. “Il virus di Ebola non è più rintracciabile nel suo sangue,” mi spiega Roberto. “Una persona viene considerata guarita quando, nel giro di 24-48 ore, due consecutive analisi molecolari non trovano più traccia del virus. Questo era lo stesso criterio usato per gestire le dimissioni anche nei centri di trattamento in Africa.” La differenza è che qui il convalescente viene tenuto in ospedale, anche oltre la risoluzione delle eventuali complicanze causate dall’infezione, sino a che permangono tracce del virus in altri liquidi organici come l’urina o la saliva.

“Nei centri di trattamento africani, quando un paziente viene dimesso gli si danno diversi consigli sulle precauzioni da prendere e un pacco con beni di necessità, anche alimentari. Ai maschi vengono anche consegnati preservativi, proprio perché si pensa che il virus rimanga qualche mese nello sperma. Certo, l’ideale sarebbe poterli tenere in isolamento più a lungo, come si fa da noi, ma ciò non è attualmente possibile per la carenza di posti.” Le precauzioni non sono mai troppe, insomma. Ciò nonostante, Roberto conferma che il virus è tanto letale quanto poco contagioso. “Fabrizio ha vissuto negli stessi ambienti a contatto con me e altri quando già cominciava ad avere i primi sintomi, ma nessuno di noi è stato infettato.”

E la paura? “Devo dire che non ho mai avuto davvero paura di contrarre Ebola. Anche la scelta di andare laggiù non è stata dettata da un desiderio di sfida nei confronti della paura. Mi interessava, e mi continua a interessare, molto di più la sfida medica e scientifica che questa malattia rappresenta. Infatti non nego che più volte mi ritrovo a pensare che vorrei tornare a lavorare. Laggiù.”

Gli chiedo quale sia stata l’immagine che più di frequente gli è tornata in mente durante l’isolamento e la sua risposta mi sorprende. “Il mare, con quelle sue spiagge tropicali, dalla sabbia finissima, e con quei temporali che ogni tanto scoppiavano, violenti e affascinanti da guardare.”

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