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L'ambiente ben temperato

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Giorni fa Guido Tabellini, commentando sul Sole24ore i deludenti risultati del summit di Copenaghen, consigliava di affrontare la questione climatica non con velleitari summit e trattati internazionali, ma di seguire la strada del GATT, antesignano del WTO nel regolare il commercio internazionale, frutto di una serie di accordi bilaterali siglati fra gli USA e singoli paesi e infine estesi al grosso della comunità internazionale.

Un invito al realismo e al gradualismo, quello di Tabellini, che trova nell'ultimo libro di Stefano Nespor (Il governo dell'ambiente. La politica e il diritto per il progresso sostenibile, Garzanti, 2009, pp 534, 26 euro) una trattazione lucida e di ampio respiro.

A dire il vero, fra l'impostazione universalista – propria della Unione europea e che tende a privilegiare appunto i trattati multilaterali e globali per affrontare le grandi emergenze ambientali – e una impostazione unilaterale – tipica degli Stati Uniti, che procedono con leggi nazionali o al massimo con accordi fra singoli stati – Nespor non parteggia per la seconda. Riconosce sì la sua maggiore efficacia, ma a un prezzo assai alto: quello di far prevalere sempre la ragione del più forte e del più ricco mettendo capo il più delle volte ad accordi fortemente sbilanciati. Il protocollo di Kyoto, con tutti i suoi difetti e le sue scappatoie sia per i paesi ricchi sia per quelli poveri, ha comunque rappresentato il primo tentativo di regolare globalmente il tema dello sviluppo dei singoli paesi attraverso la riduzione delle emissioni di gas climalteranti. Forse non si arriverà per questa strada alla normalizzazione del clima, ma un approccio globale a un tema come quello del cambiamento climatico ha avuto in questi anni la forza di stimolare la presa di coscienza di questa emergenza.

Forte della direzione più che ventennale della Rivista giuridica dell'ambiente, l'avvocato Stefano Nespor si trovava nella posizione migliore per affrontare con l'ambizione di un trattato il ruolo del diritto e della politica internazionale nel governo dell'ambiente. Il risultato è un libro di notevole completezza e leggibilità, che sembra voler delineare – fra l'altro – il profilo di un ambientalismo razionale e post ideologico adatto alle sfide del XXI secolo.

L'opera si apre ripercorrendo le contraddizioni che rendono così difficoltosa la tutela dell'ambiente nel mondo moderno. Da un lato, infatti, i progressi scientifici e tecnologici sembrano promettere la liberazione del genere umano dalle necessità materiali, dall'altro la crescita costante della popolazione, in un quadro di risorse finite, sembra mettere a repentaglio le conquiste e le sicurezze acquisite.

Nella prima parte dell'opera si tratteggia una storia della cultura ambientalista (da Primavera silenziosa di Rachel Carson al Cerchio da chiudere di Barry Commoner ai Limiti dello sviluppo del Club di Roma) che si intreccia con quella politica dei trattati e protocolli internazionali (più di 3.500 dalla Conferenza di Stoccolma del 1972 a quella di Johannesburg del 2002).

Pur con gli errori di valutazione, i ricorrenti catastrofismi e le talvolta indigeste retoriche ecologiste, si mette a fuoco in questo modo che tutela dell'ambiente e sviluppo economico sono un binomio inscindibile. Se secondo un certo ingenuo radicalismo i due termini sembrano inconciliabili, in realtà la storia degli ultimi cinquant'anni mostra il contrario: la mancanza di sviluppo genera degrado ambientale, e viceversa. La povertà – diceva Gandhi – è la forma peggiore di inquinamento.

Tuttavia la storia più recente insegna che anche il benessere e la ricchezza “inquinano”, e che il mondo – in un certo senso – vive al di sopra delle proprie possibilità di rigenerazione naturale. Denutrizione e obesità – a ben guardare – sono le due facce di una stessa malattia planetaria che non riesce a trovare un equilibrio in una accettabile redistribuzione delle ricchezze (e delle proteine).

Se fino agli anni settanta del secolo scorso i paesi in via di sviluppo erano fermamente intenzionati a non ascoltare le sirene della conservazione ambientale, che ritenevano un lusso da paesi ricchi, con il venire alla ribalta delle grandi emergenze ambientali entrano anche loro a far parte del grande circo della governance globale. Sono successe infatti due cose importanti: la crisi degli stati-nazione e la globalizzazione delle emergenze ambientali. Emergenze che peraltro non fanno sconti a nessuno: anzi, hanno la spiacevole caratteristica di riversare le conseguenze più negative sui paesi più poveri e meno responsabili degli squilibri. Stiamo parlando di capitoli (ripercorsi in modo sintetico ma scrupoloso nel libro) quali il buco nella fascia di ozono, la riduzione della biodiversità, l'aumento della desertificazione, la decrescita drammatica delle riserve ittiche e del patrimonio forestale, e naturalmente il cambiamento climatico. Tutti fattori assai preoccupanti di uno squilibrio ambientale profondo, cui va posto rimedio in tempi rapidi, impostando politiche di discontinuità rispetto all'attuale culto della mera crescita economica.

Sfida tutta da inventare, e a cui Nespor dedica le ultime pagine del libro, suggerendo per esempio il ruolo positivo che potrebbe giocare la “società civile internazionale”, in grado probabilmente di ri-orientare attraverso la sua influenza e la sua capacità di acquisto i consumi e i modi di produzione. Verso una possibile “prosperità senza sviluppo”.

Ma certamente anche il diritto ambientale globale ha una funzione importante in questa partita, nella sua capacità di tradurre le sollecitazioni della scienza e della tecnologia in possibili forme di governo globale dell'ambiente, seguendo le stelle polari di alcuni principi. Primo fra tutti quello assai controverso di sviluppo sostenibile, messo a fuoco per la prima volta nel 1987 nel documento “Our common future” dalla Commissione Buntland e su cui il libro di Nespor si arrovella non poco. Il principio, come è noto, dice: “Per sviluppo sostenibile si intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere le capacità delle generazioni future di soddisfare i propri”. Principio vago e indeterminato (fino al soddisfacimento di quale generazione dobbiamo preoccuparci?), che non riscuote l'adesione di tutti, ma che forse proprio in virtù della sua vaghezza ha saputo giocare un ruolo di principio regolativo superiore nell'arena del diritto internazionale, aiutando a diffondere la consapevolezza della limitatezza delle risorse e dell'equità intergenerazionale.

Ma principio ancora più rilevante e operativo si è rivelato quello della responsabilità comune ma differenziata, che ha consentito, sia nella “storia di successo” del buco dell'ozono sia in quella ancora in corso del cambiamento climatico, di impostare misure di contenimento delle emissioni differenziate sulla base del livello di sviluppo dei singoli paesi.


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