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Bisogno di filosofie della natura

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“Socrate in Giardino. Passeggiate filosofiche tra gli alberi” è un libro di filosofia della natura. Non è un trattato, è un discorso, un discours. Dialoga con Socrate e buona parte dei filosofi antici, cinici, epicurei e stoici, greci ma soprattutto latini come Seneca e Marco Aurelio, quelli appartenenti a quel mondo universalizzato prima dalle conquiste di Alessandro e poi di Roma, che Hegel guardava con sospetto, frutto del crollo delle mura delle poleis da dove era sgorgata la filosofia classica.
Un mondo immenso in cui l’individuo è solo e la filosofia diviene medicina per l’anima, arte per vivere bene; una condizione piuttosto simile a quella odierna, in cui le società sono sempre più frammentate e polverizzate, molecolari, gassose più che liquide.
Dialoga anche con filosofi novecenteschi, specialmente francesi, come Gaston Bachelard, quello che ci ha regalato la nozione di “rottura epistemologica”, con poeti e letterati, un dialogo, immagino, frutto di un’immersione in una grande biblioteca sin dalla più tenera età. Ci discorre, non li commenta, non cade nell’epigonismo, la malattia filosofica postmoderna. Per filosofare in maniera autentica è necessario sperimentare in prima persona, col proprio corpo, la propria sensibilità, spesso anche dolorosamente.
È così che le parole degli scrittori diventano le tue originali parole, perché si radicano in te esistenzialmente e rivivono. Inviterei i filosofi a ricordarsi di questo. Non è un caso che Andrée Bella, l’autrice, non nasca come filosofa, ma come psicologa e psicoterapeuta, e solo attraverso questo vissuto e le sfide che esso le ha posto e le pone giunga alla comprensione di un pezzo di realtà, di un pezzo di qualcosa che è “là fuori”, al di là della propria soggettività, con la mediazione della propria soggettività.

Nel leggere il libro mi viene continuamente in mente il “Marcovaldo” di Italo Calvino e la trasposizione televisiva di Nanni Loy. Questo povero operaio in una città annerita dallo smog, che si porta dietro sulla sua sgangerata motoretta per la città - Milano? Torino? - una pianta per cercare i punti dove sta piovendo perché cresca con sana acqua piovana. «L’amore per la natura di Marcovaldo è quello che può nascere solo in un uomo di città: per questo non possiamo sapere nulla d’una sua provenienza extracittadina; questo estraneo alla città è il cittadino per eccellenza», scrive Calvino in una prefazione del 1966. Platone nel “Simposio” dice a conferma di ciò che Eros, per lui in primo luogo amore della conoscenza, filosofia, è nato da un amplesso tra Poros, l’ingegno, e Penìa, la carenza. Andrée Bella cita “L’uomo che impara” di Brecht: «le cicatrici dolgono / nel tempo di gelo. / Ma spesso dico: solo la fossa / non m’insegnerà più nulla».
«Aveva questo Marcovaldo - continua Calvino - un occhio poco adatto alla vita di città: cartelli, semafori, vetri­ne, insegne luminose, manifesti, per studiati che fosse­ro a colpire l’attenzione, mai fermavano il suo sguar­do che pareva scorrere sulle sabbie del deserto. Inve­ce, una foglia che ingiallisse su un ramo, una piuma che si impigliasse ad una tegola, non gli sfuggivano mai: non c’era tafano sul dorso d’un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di fico spiaccicata sul marciapiede che Marcovaldo non notasse, e non faces­se oggetto di ragionamento, scoprendo i mutamenti della stagione, i desideri del suo animo, e le miserie della sua esistenza».

Andrée Bella richiama La metropoli e la vita dello spirito in cui George Simmel, un sociologo vissuto a cavallo tra i Otto e Novecento, «sostiene che in città sono così tanti gli stimoli per la vita mentale da indurre nei suoi abitanti una sorta di anestesia delle fondamenta sensorie della vita psichica». Commenta Andrée Bella: «Non è assolutamente mia intenzione condannare né la città, tanto meno la curiosità e il desiderio di incontro, conoscenza, esperienza. È vero tuttavia che l’industria dell’intrattenimento sta progressivamente erodendo, assieme a politiche urbanistiche che privilegiano profitti ed economia al benessere del territorio, possibili cartografie affettive o poetiche degli spazi cittadini». Queste ed altre cose «rendono sempre più difficile abitare felicemente il territorio urbano. I luoghi dello scambio e dell’ozio, della creatività sono sempre di meno».
Nel libro si cerca una salvezza col riallacciare un rapporto con la natura, principalmente con alberi e arbusti, attraverso passeggiate nei boschi e in mancanza di essi nei parchi e persino nei giardinetti alla Marcovaldo. Si tratta di esperienze reali di gruppi di persone. Hanno anche una dimensione terapeutica, una psicoterapia ambientalistica, si direbbe.
Nel corso di una di queste passeggiate, ad una donna torna in mente un ricordo di quando era ancora in fasce, di quando posta sulla carrozzina sotto un albero, vede traslucere il sole tra le foglie, con meraviglia. Mi fa venire in mente gli “Holzwegen”, i “Sentieri interrotti” di Heidegger, in cui il filosofo seguendo un sentiero nel fitto di un bosco giunge ad una radura illuminata da sole, metafora dello svelamento dell’Essere, di un uomo che non si impone violentemente sulla natura, ma assume di fronte ad essa un atteggiamento di pietas.
Attraverso queste esperienze, mediate dalle sue letture, riemerge un mondo dimenticato non solo dall’individuo ma dall’intera umanità: la dimensione panica, dionisiaca e preolimpica dello spirito greco; lo spirito dei boschi caro agli etruschi e ai latini, molto simile a quello che si respira nella religione vedica e nel buddhismo. Spirito che l’autrice rintraccia in maniera convincente anche nella sapienza biblica, nel libro di Giobbe, rompendo l’accerchiamento dell’epos e ethos indoeuropei.
Perché ho scelto di parlare in questa sede di un libro di filosofia della natura e non di scienza? Perché il 12 gennaio di questo nuovo anno ho voluto ospitare l’autrice per inaugurare le conversazioni 2015 curate dall’Ufficio Biblioscienze nelle Biblioteche di Roma? Nell’occasione presso la Biblioteca Enzo Tortora, dove molti dei presenti hanno scoperto proprio uno dei residui luoghi dello scambio e della creatività di cui Roma è fortunatamente ancora costellata.

Non c’è dubbio che nel nostro paese vi sia bisogno di cultura scientifica diffusa e criticamente avvertita. Hanno molte ragioni coloro che protestano di fronte alla confusione tra scienza e pseudoscienza. Tuttavia nel parlare di filosofia della natura non si cade in questo pericolo.
Sviluppando un’intuizione di Karl Popper, che è stato uno dei pensatori del Novecento che maggiormente ha studiato la demarcazione tra i due ambiti, un suo allievo, J. W. N. Watkins, ha introdotto la nozione di metafisica influente. Si tratta di quelle convinzioni che non sono né verificabili, né falsificabili, dunque non sono né neopositivisticamente, né popperianamente “scientifiche”: sono dichiaratamente “metafisiche”, “pseudoscientifiche”. E tuttavia influenzano pesantemente la ricerca scientifica, specialmente nel momento del suo farsi, nel contesto della scoperta, costituendone l’humus. Per gli antichi il mondo era vivo. Lentamente nella scienza occidentale è andato morendo, reso simile ad una scatola di legno, semplice contenitore privo di autonomia rispetto all’uomo. Una filosofia della natura che ci ricordi che il mondo “è”, e che “agisce”, e che lo fa senza il contributo umano, di cui anzi è figlio e parte del suo pulsare, può influire sulla scienza rendendola più umana e maggiormente rispettosa dell’ambiente di cui facciamo intrinsecamente parte, senso di appartenenza in cui riscopriamo noi stessi. Questo libro con passo felpato cerca di farlo.


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