Per
l’osservazione di molti fenomeni, l’esserne vicini è un vantaggio: sono
possibili studi più dettagliati e quindi ne deriva una conoscenza più approfondita.
È il caso del Sole, ad esempio, la cui prossimità ci ha permesso (e permette) osservazioni
particolareggiate che ci fanno conoscere la nostra stella meglio di qualsiasi
altra, proprio perché la vicinanza consente di registrare segnali non visibili nel
caso di oggetti più lontani.
Basti pensare alla granularità della sua fotosfera, alla morfologia delle
macchie solari, al flusso di neutrini
che emette. Vi sono tuttavia anche situazioni opposte, quelle per cui un’eccessiva vicinanza rende più difficile, se
non impossibile, vedere determinati fenomeni.
Se vi trovaste a fare trekking nel deserto
di Nazca, in Perù, difficilmente vi rendereste conto di attraversare dei
bellissimi geroglifi, rappresentanti colibrì, cani, ragni e altri animali. Ma
se vi levaste in volo con un piccolo aeroplano, allora li potreste riconoscere
e ammirare facilmente, realizzando come da lontano queste figure – grandi anche
più di 100 metri ma invisibili da terra – si notano molto chiaramente.
Se volete togliervi la soddisfazione di verificare con i vostri occhi, ma non
avete in programma un viaggio in Perù, potete sfruttare quella meraviglia che è
Google Earth, andare alle coordinate 14° 41’ 32” Sud e 75° 08’ 56” West (sarete
proprio sul colibrì) ed esplorare i dintorni.
È così anche per le galassie: è più facile vedere grandi outflow di gas e polveri, oppure giganteschi lobi di emissione
radio o X intorno a galassie lontane (specialmente se orientate
favorevolmente), piuttosto che associati alla nostra, dato che nella nostra
siamo immersi.
Tutti abbiamo in
mente le impressionanti immagini della galassia
M82 con l’incredibile quantità di gas e polveri fredde emesse, rivelate dal
telescopio per astronomia infrarossa Spitzer o l’immagine composita (ottica, radio
e X) di Centaurus A che mostra jet e
lobi giganteschi; ma non ci eravamo accorti che anche la nostra Galassia,
ritenuta abbastanza “normale” ed energeticamente “tranquilla”, mostra enormi lobi di emissione
di alta energia.
Se avessimo potuto osservarla dal di fuori, così come facciamo con tutte le altre, possibilmente guardandola di taglio con un
telescopio sensibile ai raggi gamma, avremmo visto qualcosa di simile a quanto
è mostrato nell’immagine (è una rappresentazione artistica, ovviamente, preparata
dai disegnatori della NASA).
Disegno che mostra come apparirebbe la nostra galassia se guardata dall’esterno nell’ottico, nei raggi
X e nei raggi gamma.
Standoci invece dentro, e per di più nel disco, la cosa si è rivelata più difficile ed è stata necessaria un’attenta analisi dei
dati ottenuti dal telescopio Fermi
per scoprire l’esistenza delle due grandi “bolle” di emissione di raggi gamma
che si estendono da entrambe le parti del piano della nostra galassia e sono
centrate sul suo nucleo.
Sebbene l’origine e la natura di queste “bolle” di radiazione gamma sia
tutt’altro che assodata, è ragionevole pensare
che esse siano collegate alla presenza del buco nero supermassiccio che si
trova nel nucleo della nostra Galassia e di cui abbiamo recentemente parlato
proprio in questa rubrica (v. “le Stelle” n. 133, pp. 10-11).
Quando, un paio di anni dopo la scoperta delle bolle, e sempre nei raggi gamma, si è scoperta anche l’esistenza
di un debole doppio jet che si estende
dal centro della Galassia sino ai bordi delle due bolle, il collegamento
con il buco nero ha ricevuto ulteriore credito, se non altro per analogia con
quanto osservato in molte galassie “attive”.
La debolezza del jet induce a pensare che
quanto si vede oggi sia quel che rimane di fenomeni ben più energetici avvenuti
nel passato della nostra Galassia e che il buco nero centrale sia ora, e da
tempo, sostanzialmente dormiente.
La sua massa, circa 4 x 106 masse solari, non è così grande come quella di
altri che si trovano nei nuclei di altre galassie (~2x108 masse solari nel caso
di Andromeda fino a ~2x1010 nel caso di NGC 4889), ma lo qualifica comunque come
buco nero supermassiccio e il suo valore
è stato calcolato studiando il moto di alcune stelle che gli ruotano attorno.
Ovviamente tutti noi speriamo di avere modo di vederlo in azione e dunque le osservazioni
del centro galattico continuano e la zona è costantemente monitorata in attesa
di assistere al suo prossimo “pasto”.
Uno è atteso a breve (ma è un po’ in ritardo rispetto alle previsioni
iniziali), e consisterà in un’enorme nube di gas, detta G2, che gli si sta
dirigendo contro. Ma è veramente un buco nero quello che diversi gruppi di ricerca stanno osservando?
Già, perché c’è chi si chiede se Sgr A* non sia piuttosto un wormhole, creato nell’universo
primordiale, che potrebbe mettere in connessione due regioni distinte del
nostro universo o addirittura due universi diversi, nel modello dei Multiversi (scusate
la cacofonia).
I wormhole (o ponti di Einstein-Rosen) sono una caratteristica topologica dello
spazio-tempo che, essendo contemplata come soluzione valida delle equazioni che
descrivono la relatività generale, viene considerata seriamente e studiata dai fisici
teorici, i quali li hanno classificati in vari tipi a seconda delle loro
peculiari proprietà.
In un recente lavoro, Zilong Li e Cosimo Bambi,
della Fudan University di Shanghai, in Cina, si pongono il problema di capire se vi siano
osservazioni astronomiche in grado di
distinguere tra un buco nero e un wormhole.
Li e Bambi sostengono che osservazioni di una nube di gas caldo, in orbita in prossimità della più interna
orbita circolare possibile intorno a Sgr A*, potrebbero permettere di
discriminare tra le due ipotesi (buco nero o wormhole).
La loro tesi è corroborata dai risultati di numerose simulazioni che mostrano
come la morfologia delle immagini distorte dal forte campo gravitazionale sia
diversa nei due casi.
Ciò in quanto la sfera di cattura apparente dei fotoni (l’“ombra”) di un wormhole sarebbe molto più piccola di quella di un buco nero.
Gli astronomi, consapevoli delle unicità offerte dal laboratorio Sgr A*, anche grazie alla sua
relativa vicinanza, si stanno da tempo attrezzando per condurre osservazioni sempre
più dettagliate e già l’anno prossimo, all’osservatorio
ESO di Cerro Paranal, entrerà in funzione GRAVITY,
uno strumento che è stato costruito per sfruttare
al meglio le caratteristiche interferometriche del VLTI e ottenere le prime immagini
infrarosse di altissima risoluzione di quel che succede nel centro della nostra
Galassia.
Più ambizioso, ma ancora da realizzare, è il progetto dell’Event Horizon Telescope (EHT), un telescopio che si ripromette
osservazioni (nella banda millimetrica e submillimetrica, combinando in modo
interferometrico molti radiotelescopi sparsi per il mondo) di risoluzione angolare
talmente spinta da essere in grado di risolvere l’orizzonte degli eventi di
SgrA* e misurare quindi la sua “ombra”.
Francamente non credo che le
osservazioni di GRAVITY permetteranno di
capire se al centro della nostra Galassia alberghi un buco
nero di quattro milioni di masse solari o se ci sia invece un esotico passaggio
verso una destinazione ignota, sia essa nel nostro stesso universo piuttosto
che in un altro.
Sono però convinto che i risultati di queste nuove osservazioni saranno
comunque sorprendenti ed entusiasmanti (come lo saranno quelli dell’EHT quando
arriveranno) e che ci faranno fare un altro passo avanti verso una conoscenza
del mondo che continua a riservarci sorprese.
Tratto da Le Stelle n° 136, novembre 2014