Ha superato i 27 milioni di dollari di incasso nei soli USA La teoria del tutto, il film di James Marsh sulla vita del fisico britannico Stephen Hawking, che è candidato agli Oscar (miglior film, miglior attore protagonista, miglior attrice protagonista) e ha già fruttato un meritato Golden Globe a Eddie Redmayne come miglior attore. Ma il successo del film non stupisce: almeno da The Big Bang Theory in poi, la trasposizione su schermo della vita dei fisici funziona quasi a colpo sicuro. Segnale, questo, che la svolta pop nella comunicazione pubblica delle scienze “dure” degli ultimi anni ha avuto il suo effetto.
Tuttavia, come in molti si saranno accorti, questa svolta
pop rischia spesso di finire schiacciata sotto il peso dei suoi stessi cliché.
Ci rendiamo conto che è quasi inevitabile raccontare al pubblico un uomo come
Stephen Hawking senza inciampare in qualche luogo comune, ma guardando La
teoria del tutto sembra di assistere a una prona santificazione: non tanto
dell’eminente scienziato, quanto dello stereotipo in cui è stato
irrimediabilmente trasformato dagli sceneggiatori.
Uno stereotipo che nella parte iniziale del film è quello
dello scienziato tutto “genio&sregolatezza”, ma che presto vira in quello
dell’eroe che riesce a compiere titaniche imprese dell’intelletto nonostante
sfide e difficoltà apparentemente insormontabili. Il risultato è, secondo il
parere di chi scrive, una narrazione povera di contenuti e decisamente priva di
originalità.
In tutto questo, l’aspetto scientifico della vicenda la
scienza rimane confinato in un ruolo abbastanza secondario nell’economia del
racconto. Il che è perfettamente legittimo; il problema è come tale aspetto viene
affrontato nel lungometraggio. Le teorie che hanno reso celebre Hawking in
tutto il mondo – che occupano circa il primo terzo del lungometraggio – vengono
snocciolate in maniera inefficace quando non addirittura pasticciata: slogan
come “il buco nero all’origine dell’universo” hanno un effetto vagamente
irritante in chi è pratico della materia.
Non vi è, peraltro, alcuna contestualizzazione delle teorie
cui si fa accenno. Chi guardasse il film totalmente a digiuno di cosmologia
verrebbe decisamente spinto a credere che sia stato il buon Hawking a inventare
il concetto di Big Bang, con buona pace della straordinaria intuizione di Georges
Lemaître e dell’epocale scoperta di Edwin Hubble, entrambe risalenti
agli anni ’20. In generale, l’impressione – netta – è che al non addetto ai
lavori non sia data affatto la possibilità di comprendere il contenuto dei
lavori del fisico inglese.
Oltre a Hawking e alle sue teorie, è la stessa scienza a venire rappresentata in maniera riduttiva e stereotipata, in cui ciò che conta sembra essere soltanto il momento dell’ispirazione creativa. Il processo di validazione della teoria sulla radiazione di Hawking, a metà degli anni ’70, fu lungo e tormentato da un acceso dibattito, cosa che nel film si è scelto di ignorare quasi completamente. In questo modo si impedisce allo spettatore di capire l’enorme portata di tale scoperta, che secondo molti rappresenta la prima cornerstone verso la gravità quantistica.
Il risultato è che il successo dello scienziato viene dato
per scontato: l’importanza del suo contributo alla cosmologia e alla stessa theory
of everything è una tematica decisamente non sviluppata. Ciò che rimane è
la figura di un eroe quasi archetipico, la cui portata possiamo solo accettare
in modo fideistico.
Ne è la dimostrazione la penultima scena del film: parlando
a una platea di fan, lo scienziato conclude il suo discorso con la frase «Finché
c’è vita c’è speranza» – che non brilla certo di originalità – e la folla si
produce in una commossa standing ovation. È il trionfo della
convenzionalità, la banalizzazione della scienza, la svalutazione del contenuto
a favore di una retorica compiacente e rassicurante.
C’è da dire, a parziale discolpa degli autori, che a
dispetto del titolo fuorviante il film non ha il suo baricentro nelle teorie di
Hawking né nella scienza in generale. Il lungometraggio è tratto infatti dal
memoriale di Jane Wilde, prima moglie dello scienziato (Verso
l’infinito. La vera storia di Jane e Stephen Hawking in «La teoria del tutto»,
Piemme, 2015), per cui è comprensibile che l’aspetto umano-emotivo prevalga su
quello scientifico-accademico. Ciò che non è giustificabile è questa “sindrome
di Beautiful Mind” di cui il cinema mainstream a contenuto
scientifico continua a soffrire.
L’aspetto positivo di La teoria del tutto è che avrà probabilmente
l’effetto di fare incuriosire molte persone sull’opera imprescindibile di uno dei
più grandi fisici teorici del secondo dopoguerra.