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Conoscere per partecipare

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Per molto tempo la scienza è stata erroneamente considerata come un contributo “tecnico”, più che culturale, alla società. È stata apprezzata perché ci forniva la capacità di “costruire cose” e di “risolvere problemi”, contribuendo al benessere e al progresso, ma è stata sottovalutata come strumento potente per capire, conoscere e spiegare il mondo. Si pensi al dibattito iniziato molti anni orsono con la pubblicazione del libro "Le due culture e la rivoluzione scientifica" di Charles Percy Snow.
Un dibattito che, spero, sia ormai superato con il riconoscimento che la cultura è una e che la scienza ne fa parte a pieno titolo e in maniera non subordinata. Sono ovviamente consapevole che parole come: “Che fai tu, Luna, in ciel? Dimmi, che fai, silenziosa Luna?” suscitino emozioni più forti di quelle che derivano dalla capacità di predirne le eclissi, così come gli “infiniti” di Leopardi muovono l’animo ben più dei transfiniti di Cantor.
Va tuttavia riconosciuto alla scienza l’essere stata determinante nella storia dello sviluppo del nostro pensiero; basti pensare ad alcune scoperte e ad alcuni libri. Per esempio:
– il passaggio dal sistema tolemaico a quello copernicano;
– la pubblicazione, da parte di Galileo, del Sidereus Nuncius e del Saggiatore (che gettava le basi per quello che è successivamente diventato il metodo scientifico, ovvero il modo di fare scienza);
– la pubblicazione de L’origine delle specie di Darwin;
– lo sviluppo, nel secolo scorso, della teoria della relatività e della Meccanica quantistica;
– l’aver scoperto che l’Universo cambia continuamente; non è immutabile né immobile e ha avuto origine con il “Grande Botto”, circa 14 miliardi di anni fa.

Fermiamoci un momento a valutare questi punti. Il passaggio dal sistema tolemaico a quello copernicano non è stato questione puramente geometrica (lo fu soltanto inizialmente) consistente nel descrivere in maniera più precisa il moto dei pianeti osservabili. È stato piuttosto un cambiamento fondamentale di paradigma in quanto la Terra veniva tolta da una posizione particolare, privilegiata, perdendo centralità e quindi importanza.
Centralità ulteriormente demolita dagli studi di Darwin e dalla pubblicazione de L’origine delle specie. Non solo la Terra, ma anche l’essere umano, doveva scendere dal piedistallo sul quale era stato dogmaticamente collocato.
Nel Sidereus Nuncius Galileo annota i risultati delle sue osservazioni dei corpi celesti e della Luna mostrando che questa era fatta di roccia, come la Terra: le irregolarità del terminatore (zona che separa la luce dall’ombra) indicavano l’esistenza di crateri, montagne e valli. Osservando ripetutamente Giove, Galileo ne scoprì i quattro satelliti principali e annotando, notte dopo notte, il loro cambiamento di posizione, dedusse che gli ruotavano intorno no. Tutto questo – per non parlare poi delle osservazioni delle macchie solari (che apparivano, sparivano, e mostravano che il Sole cambiava aspetto) – diede un discreto “colpo” alla filosofia aristotelica di perfezione dell’universo e contribuì a cambiare la percezione del mondo. La Meccanica quantistica portò al superamento del determinismo (ovvero del pensare che tutto potesse essere calcolato e previsto conoscendo bene le condizioni iniziali di un sistema).
Al determinismo sostituì il probabilismo, assegnando persino delle probabilità a eventi impossibili. L’effetto tunnel, per esempio, non è altro che un evento che dovrebbe essere impossibile (il superamento da parte di una particella di una barriera più grande della sua energia) ma che invece osserviamo. Ancora una volta la scienza porta a un cambiamento di paradigma, a modificare la nostra concezione del mondo. E senz’altro non è finita, perché è possibile immaginare in futuro altri eventi derivanti dalla ricerca scientifica che potrebbero avere un profondo impatto sulla considerazione che abbiamo di noi stessi, sulla nostra concezione del mondo.
Immaginate, per esempio, quando troveremo una prova, diretta o indiretta, di una forma di vita extraterrestre, anche estinta. Ovviamente, tutti questi cambiamenti non sono stati indolori. La scienza si è a lungo scontrata con il dogma, che per secoli è stato dominante, perché ha cominciato a minare il monopolio sulla verità che altri ritenevano di avere “per grazia ricevuta” e a mettere in discussione il ruolo e la centralità dell’essere umano. Tutto questo perdura ancora oggi. La scienza continua a generare tensioni in molti ambiti. Pensate per esempio al discorso sulla “vita”, a quando la scienza – col suo metodo e con le sue verifiche – vuole indagare il confine tra vita e morte o entrare nel merito delle differenze fra un progetto di vita e la sua realizzazione o quando ancora cerca di riprodurre la vita in laboratorio. Una volta che noi capiamo che la natura si manifesta con leggi anche radicalmente diverse da quelle che abbiamo creduto valide fino a quel momento, abbiamo una vera rivoluzione, uno scombussolamento generale.

Comunicare richiede lo sforzo di cambiare il linguaggi

Quando poi questa nuova conoscenza non rimane circoscritta solo agli addetti ai lavori, ai ricercatori e agli scienziati, ma percola nel mondo e diventa patrimonio comune, si hanno ripercussioni pressoché in tutti i campi del sapere. Si esce dall’ambito di stretta pertinenza della Fisica, della Genetica o di altri campi scientifici e si coinvolgono filosofi, esperti di etica e società, si coinvolge il pensiero generale. È attraverso questo meccanismo che la scienza diventa di tutti, e diventa cultura. Divulgare la scienza è necessario Il fatto che per tanto tempo la scienza sia stata una cultura “di serie B” è anche imputabile agli scienziati, che hanno trascurato la sua divulgazione a un pubblico ampio, la spiegazione del lavoro fatto, dei risultati e delle loro implicazioni.
Gli umanisti sono abituati a scrivere per tutti. Comunicano tra di loro, ma per farlo scrivono in un linguaggio comprensibile, e quindi più facilmente fruibile, da una comunità allargata. In genere gli scienziati, quando scrivono in modo professionale, lo fanno in maniera così incomprensibile che solo gli esperti di un certo settore scientifico riescono a capire il lavoro che i colleghi stanno descrivendo. In questo caso è davvero necessaria una “traduzione”. È dunque necessario che gli scienziati imparino a parlare al mondo e non solamente al collega della stanza accanto. Oggi, se consideriamo le riviste specializzate su cui sono pubblicati i risultati delle varie ricerche è difficile per un chimico leggere un articolo di Fisica teorica, per un fisico teorico leggerne uno di Genetica e così via. Se il tecnicismo del linguaggio viene superato e ci si impegna a divulgare e spiegare le ricerche, allora le cose cambiano.
Comunicare richiede lo sforzo di cambiare il linguaggio. Per molto tempo i colleghi hanno considerato questo sforzo una perdita di tempo, un dedicarsi a qualcosa che rallenta il lavoro di ricerca, rischiando di far perdere competitività rispetto ai colleghi. Le cose sono cambiate quando molti scienziati si sono resi conto di dover investire del tempo nella comunicazione e divulgazione. Questo è successo anche a seguito del fatto che in molti campi si è passati dalla small science alla big science, cioè a grandi progetti che richiedono finanziamenti talmente ingenti per poter continuare a costruire strumenti competitivi che soltanto governi o organizzazioni internazionali come per esempio CERN, ESA o ESO possono garantire. La big science ha quindi bisogno che il contribuente sia contento, dato che gli investimenti pubblici derivano dal prelievo fiscale.
Ciò ha indubbiamente spinto i ricercatori a sforzarsi maggiormente per spiegare al pubblico quello che stanno facendo. Negli Stati Uniti per esempio la NASA e lo Space Telescope Institute hanno fatto un ottimo lavoro per divulgare i risultati ottenuti con il Telescopio Spaziale Hubble. Ogni giorno, bellissime immagini appaiono sulla stampa o vengono appese ai muri nelle classi delle scuole. Questo lavoro si è rivelato un investimento che ha dato i suoi frutti in occasione del secondo disastro dello Shuttle, quando sembrava che la NASA avesse intenzione di cancellare la missione dedicata all’aggiornamento e ripa razione della strumentazione dello Space Telescope.
Il pubblico, che si era affezionato al Telescopio Spaziale e lo sentiva come cosa anche sua e aveva capito l’importanza di averlo e mantenerlo in funzione, ha esercitato una tal pressione sulla NASA, affinché trovasse una soluzione, che questa ha dovuto ricredersi. La comunità scientifica ha così raccolto i frutti dell’investimento in divulgazione. È doveroso che quello che gli scienziati fanno sia raccontato in modo che le persone possano realizzare qual è il ritorno di una ricerca in termini di conoscenza, cultura e trasferimento tecnologico. È giusto far capire che l’investimento in ricerca (soprattutto quella di base, la cui importanza spesso sfugge ai più) si traduce poi in un effettivo progresso e in un miglioramento della vita quotidiana.
Quando Faraday e Franklin studiavano Elettrologia, non immaginavano la rete di distribuzione dell’energia elettrica. Essa è stata una conseguenza di quegli studi, indispensabile per il progresso. Chi studiava l’interazione tra luce e materia non era consapevole che ne sarebbe derivato il laser, che oggi è usato per registrare e leggere dati, musica e immagini, per analizzare i materiali e ha molteplici applicazioni in medicina. Non potremmo farne a meno. È importante far capire che finanziare la ricerca di base darà senz’altro dei frutti, anche se talvolta li darà ad anni di distanza.
La ricerca di base, la conoscenza, è uno dei pilastri su cui si costruisce il benessere della società.

Da pubblico spettatore a pubblico attore: la citizen science

Il passo successivo alla divulgazione è quello di rendere il pubblico partecipe, coinvolgerlo oltre che informarlo, trasformarlo da spettatore passivo ad attore consapevole. Uno dei primi esempi di oinvolgimento nella ricerca pubblica viene dal progetto SETI@home (Search for Extra Terrestrial Intelligence): la ricerca di eventuali forme di civiltà extraterrestri attraverso osservazioni (in banda radio) che vengono analizzate per cercare tra i segnali qualcosa che ne indichi un’origine non naturale, un segno di intelligenza come per esempio una sequenza di numeri primi. Partecipare a SETI@home consisteva nello scaricare nel proprio PC un software e una serie di registrazioni che il computer analizzava nel momento in cui la CPU (Central Processing Unit) non era occupata da altri programmi, per esempio durante la pausa pranzo o la notte. Il progetto, pur non avendo (ancora) trovato segnali d’intelligenza extraterrestre ha avuto molto successo. Iniziato nel 1999, in meno di due anni ha registrato più di 2.000.000 di download e utilizzato oltre 400.000 anni di CPU per complessivi 4x1020 flops, diventando il più grande progetto di calcolo distribuito al mondo e il più grande supercomputer in operazione a quel tempo. La gente metteva volentieri a disposizione il proprio computer quando non se ne serviva, contenta di partecipare a un progetto affascinante. La partecipazione era tuttavia molto debole perché si usavano solo le risorse di calcolo e non le persone a essa associate.
Un salto qualitativo è stato fatto anni dopo con Galaxy Zoo, un progetto che offre e richiede una partecipazione molto più forte. È nato nel 2007, a seguito dell’enorme quantità di dati acquisiti in modo automatico dal progetto di astronomia Sloan Digital Sky Survey. Si tratta di un telescopio che si attivava automaticamente ogni notte e, dopo aver verificato che le condizioni meteo fossero favorevoli, scattava una serie di fotografie profonde del cielo con diversi filtri e le archiviava. Analizzare questi dati è operazione lunga e complessa; i colleghi responsabili del progetto hanno quindi pensato di chiedere aiuto at large, coinvolgendo un pubblico interessato nella classificazione delle galassie (ellittiche, a spirale, irregolari, rosse, ecc.). Nella prima giornata di operazioni, guidate da un sito che forniva dati e istruzioni su come fare il lavoro, sono arrivate classificazioni a ritmi vertiginosi (70.000/ora). In un anno 150.000 persone hanno partecipato al progetto. Il coinvolgimento del pubblico pone naturalmente il problema dell’affidabilità dell’analisi, risolto però dai grandi numeri. Se si ricevono molteplici classificazioni di una stessa galassia è facile immaginare un algoritmo che gestisca le eventuali discrepanze e quantifichi l’affidabilità della classificazione.
Questo caso mostra che è possibile coinvolgere il pubblico non solo perché possiede dell’hardware utile ma anche e soprattutto perché ha una “testa pensante” e la voglia di imparare e di contribuire.
Galaxy Zoo ha avuto un successo tale che ha generato un progetto più ampio, dove viene proposto di contribuire a un’incredibile diversità di progetti scientifici che vanno dalla classificazione del linguaggio dei cetacei alla traduzione di frammenti di papiri, al recupero delle registrazioni meteo sulle navi durante le guerre mondiali per cercare di ricostruire una storia climatica più precisa e analizzarne i cambiamenti. Il coinvolgimento quindi funziona. Planet Hunters è un progetto per la ricerca di pianeti extrasolari che utilizza i dati del satellite Keplero che osserva un altissimo numero di stelle per le quali ottiene una curva di luce. Un rapido calo nella luce della stella, seguito da un altrettanto rapido ritorno al livello normale, indica il probabile transito di un pianeta davanti alla stella. In questo modo si trovano candida ti pianeti extrasolari; se poi l’evento si ripete un altro paio di volte a intervalli regolari, è possibile confermare l’esistenza del pianeta.
Anche questo progetto genera una grande quantità di dati; nonostante gli algoritmi automatici di analisi, a volte qualcosa sfugge e il team di Keplero ha pensato di coinvolgere il pubblico.
Mi ha colpito una frase di una persona che, insieme ad altre, durante l’analisi dei dati ha trovato un particolare che era sfuggito all’analisi automatica. Dice: “Sono coautore di un articolo in qualità di scienziato cittadino e non riesco a spiegarvi quanto questo sia importante per me. È veramente una piccola cosa ma essere parte del team che ha fatto questo lavoro mi fa sentire direttamente connesso con questo incredibile viaggio scientifico della scoperta”. Trovo questi progetti molto positivi perché coinvolgono le persone non solo in modo tecnico ma anche in modo emotivo. Sicuramente questa persona spiegherà ad altri quanto può essere bella e piacevole la ricerca scientifica.
La citizens science è una novità degli ultimi dieci anni e rappresenta un’opportunità importante per l’auspicabile passaggio dal Public Understanding of Science al Public Engagement with Science and Technology.
Questo non significa che solo il coinvolgimento diretto sia interessante e positivo; la divulgazione e la comunicazione rimangono assolutamente insostituibili. Il goal al quale si vuole arrivare è quello di far crescere la cultura scientifica nella società, far capire che senza scienza non ci sono né cultura né futuro, né benessere né progresso. Questo deve divenire consapevolezza distribuita in ampi strati della popolazione. Vorremmo fornire a tutti i mezzi che permettono di capire, distinguere e scegliere in determinate situazioni, rendendoli indipendenti, “uccidendo” il principio di autorità secondo cui quello che ha detto uno scienziato deve essere accettato acriticamente. È necessario confrontare pareri diversi e sviluppare uno spirito critico individuale.
Le persone devono poter seguire i dibattiti scientifici sulle pagine dei giornali e i programmi televisivi su temi scientifici che ci toccano da vicino, come quelli sulle cellule staminali, sullo smaltimento dei rifiuti, sui diversi modi di produrre energia, sugli organismi geneticamente migliorati.
Così le persone potranno esprimere opinioni informate e sviluppare uno spirito critico, confrontando pareri diversi e riconoscendo le opinioni viziate da interessi particolari. Poiché “sapere è potere” e il sapere diventa sempre più scientifico, la cultura scientifica, se largamente diffusa, diventa un momento di democrazia. Senza una cultura scientifica distribuita, la democrazia non può che essere incompiuta.

Il giornalismo scientifico tra sensazionalismo e rigore

Qual è l’intermediario privilegiato fra scienza e società? Il giornalista scientifico, che si pone in mezzo e dovrebbe tradurre e spiegare. Egli è però anche l’anello debole della comunicazione perché è spesso mosso dall’esigenza di quel sensazionalismo che si concilia con le vendite e gli indici di ascolto ma non con la correttezza del metodo scientifico che fa avanzare la ricerca col suo rigore intrinseco, la sua necessità di passare attraverso ripetitivi momenti di verifica, provando e riprovando. Il rischio è di informare male o addirittura di disinformare. Quante volte abbiamo letto “Trovata la cura per il cancro”? Senza questo tipo di titoli le vendite e gli indici di ascolto non si impennano e c’è meno attenzione alla notizia. Ma questo sensazionalismo crea aspettative inevitabilmente disattese che fanno un pessimo servizio alla scienza.
Ho letto articoli dal titolo “Sulla Luna un hotel a 5 stelle” che raccontano dell’apertura del business degli alberghi spaziali, con la notizia che una compagnia alberghiera britannica avrebbe acquistato un pezzettino di Luna sul quale costruire un hotel, un mercato che secondo l’autore potrebbe attivarsi tra 25 anni!
Queste notizie sono – a mio avviso – ridicole, ma traggono origine da un articolo scientifico serio, utilizzato malamente dal giornalista. Un gruppo di ricercatori giapponesi, analizzando immagini di una sonda che fotografava la Luna in diversi momenti e in diverse condizioni d’illuminazione solare, ha scoperto una sorta di lungo tunnel verticale e ha sottolineato come questo tunnel sia potenzialmente interessante perché in grado di fornire uno schermo naturale al flusso di raggi cosmici che colpiscono la Luna e che rendono pericolosa la permanenza in superficie degli astronauti. Non si parla di hotel e di sfruttamento commerciale; questo argomento è stato successivamente “caricato” sopra la notizia scientifica e questa non è buona informazione scientifica. Forse sarebbe stato noioso per i lettori raccontare solo il contenuto del lavoro dei colleghi giapponesi, ma allora sarebbe stato meglio non farlo del tutto! Un secondo esempio viene da un articolo su La Repubblica di non molto tempo fa, dal titolo “Benzina pulita creata dall’aria. C’è riuscita un’azienda inglese”.
Il sottotitolo spiega che sono stati creati cinque litri di carburante partendo dall’anidride carbonica. Anche quest’articolo è ingannevole e ben vengano alcuni interventi critici da parte della comunità scientifica.
Vincenzo Balzani, chimico di Bologna, per esempio reagisce riguardo al metodo, scrivendo su Scienzainrete: “Sono contrario alla clamorosa divulgazione di ipotetici risultati scientifici eccezionali attraverso i giornali, saltando il passaggio di una rivista specializzata che prima di pubblicarli li avrebbe sotto posti al giudizio di esperti”. Qui c’è una critica, non solo al giornalista, ma anche ai ricercatori che convocano una conferenza stampa per annunciare un risultato scientifico anziché inviarlo a una rivista specializzata che sottopone la ricerca al processo di peer review, a valutazioni e controlli prima di diffondere il risultato. Balzani continua dicendo che l’articolo non spiega che, anche se si riescono a realizzare certi processi, essi non hanno alcun interesse se il bilancio energetico è negativo. Possiamo trasformare il piombo in oro attraverso opportune reazioni nucleari con le quali andiamo ad aggiungere o togliere protoni e neutroni, ma non conviene assolutamente: non ha nessun interesse dal punto di vista energetico o economico.

Anche i ricercatori sbagliano. E non sempre in buona fede…

Anche i ricercatori hanno le loro pecche, non vorrei si pensasse che i problemi stanno tutti e solamente nel campo del giornalismo. I ricercatori fanno talvolta errori, spesso in buona fede, ma talvolta in malafede. Per quanto riguarda la buona fede posso ricordare un paio casi: nel 1982 il fisico Cabrera dell’Università di Stanford annunciò che aveva visto un monopolo magnetico. L’articolo fu pubblicato su una rivista scientifica con grande risalto mediatico. L’evento non fu mai più osservato e la comunità scientifica si è convinta che si sia trattato di una registrazione spuria. Più recentemente abbiamo avuto conferma che i neutrini non sono più veloci della luce. Il gruppo di ricerca che sospettava il contrario era inciampato in problemi strumentali poi scoperti e corretti. Ma i titoloni si sono sprecati nonostante la cautela dei ricercatori. A volte non si tratta di errori ma di “pasticci”, come per esempio nel caso dei vari esperimenti di fusione fredda. In questo caso non si è trattato di un onesto errore ma di un tentativo molto pasticciato di ottenere un risultato clamoroso che avrebbe avuto notevoli implicazioni economiche. L’accusa è che non si è mai riusciti a capire esattamente come fossero stati condotti gli esperimenti che quindi non è mai stato possibile riprodurre.
Diceva Carl Sagan, grande astrofisico e divulgatore americano, uno dei fondatori del progetto SETI: “Extraordinary claims require extraordinary evidence”. Ovvero, le prove di un risultato straordinario devono essere straordinariamente robuste; non si possono scombussolare le basi della conoscenza con un risultato dalla significatività statistica marginale o non ben documentato. A volte, addirittura, i ricercatori falsificano i dati. Vi sono casi ben documentati. Tra questi: – la memoria dell’acqua (Benveniste), sponsorizzata da un’azienda francese; – la correlazione tra il vaccino trivalente e l’insorgere dell’autismo (Wakefield); – la clonazione di embrioni umani da parte di un ricercatore sud-coreano (Hwang Woo-Suk). La rivista Nature, nel caso di Benveniste, dopo aver pubblicato l’articolo, ha organizzato un team per riprodurre l’esperimento e poiché aveva il sospetto che ci fosse una frode ha coinvolto anche James Randi, un ricercatore specializzato nelle frodi scientifiche. È stata successivamente pubblicata una smentita del risultato. Wakefield è stato interdetto dall’esercizio della professione medica, è stata pubblicata una smentita sulla stessa rivista che ne aveva pubblicato i risultati (The Lancet) e le conclusioni dell’autore vengono considerate “frode deliberata”. Hwang Woo-suk ha ammesso di aver falsificato i dati.

Selezionare le informazioni: Totti non è l’ottavo Re di Roma

Quindi, come fare scuola di divulgazione e giornalismo scientifico? Come combattere superficialità, pressapochismo e malafede? Innanzitutto per informare bisogna essere informati, sapere di cosa si parla, documentarsi e studiare. Poi bisogna usare quello che chiamiamo “il metodo scientifico”, che implica valutare e verificare i risultati, che devono essere riproducibili in un esperimento controllato e devono essere messi a disposizione dei colleghi della comunità scientifica. Quindi: sapere, saper trovare, saper distinguere, saper scegliere. È sempre più facile oggi reperire informazioni ma è necessario saper distinguere tra di esse. Probabilmente cercando in rete “otto re di Roma” ne troveremmo effettivamente otto con Francesco Totti che segue Tarquinio il Superbo. È dunque bene sapere che quelli “veri” erano solo sette…
In conclusione vorrei sottolineare che gli scienziati hanno la possibilità di giocare un ruolo molto importante nella divulgazione della scienza e nella comunicazione dei suoi risultati. Hanno la possibilità e la responsabilità di diventare attori consapevoli della divulgazione scientifica dedicando tempo e impegno alla comunicazione e alla divulgazione, contribuendo alla formazione di personale qualificato e mantenendo un controllo scientifico sulla qualità e sulla veridicità di quanto viene divulgato e comunicato.

Tratto da Scienza & società -  Scienza e Democrazia, Editore Egea


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