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Buchi neri: tempo di scoperte (e di domande)

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Si dice che Pierre-Simon Laplace - il primo a ipotizzare, più o meno in contemporanea con John Michell, l'esistenza dei buchi neri - fosse piuttosto restio ad accettare che nell'Universo potessero davvero esistere quelle stelle scure capaci di imprigionare la loro stessa luce impedendole di diffondersi all'esterno. Si era alla fine del Settecento e perché a quelle bizzarre situazioni fisiche venisse data una veste matematica completa si dovette aspettare oltre un secolo e i nuovi orizzonti aperti dalla pubblicazione della Teoria della Relatività Generale. Lo stesso termine “buco nero” ha solamente cinquant'anni. Venne impiegato per la prima volta verso la metà degli anni Sessanta dalla giornalista Ann Ewing nel suo resoconto di un Meeting dell'AAAS e non si sa se fu una sua felice invenzione oppure riportò le parole di un partecipante alla conferenza. Il termine venne successivamente ripreso e definitivamente consacrato dal fisico John Archibald Wheeler nel 1967. Quegli anni furono incredibilmente fertili per la teoria dei buchi neri. Fu proprio a partire dagli anni Sessanta, infatti, che la ricerca di possibili soluzioni alle equazioni della Relatività Generale portò un drappello di fisici teorici - Roy Kerr, Ezra Newman, Werner Israel, Vladimir Belinsky, Evgeny Lifshitz, Roger Penrose e Stephen Hawking, giusto per citarne alcuni - a svelare le proprietà e la struttura dei buchi neri nonché la loro azione sulla regione circostante, indirizzando in tal modo gli astronomi verso i possibili fenomeni in grado di svelarne la presenza.

Da qualche decennio non solo nessuno dubita più della loro esistenza, ma gli astronomi hanno ormai prove inoppugnabili sia di buchi neri di massa stellare (da alcune masse solari a qualche decina) sia di quelli incredibilmente più massicci (milioni e persino miliardi di masse solari), che si nascondono nel cuore delle galassie, Via Lattea compresa. Ciò che non lascia tranquilli gli astronomi è che mancano all'appello i cosiddetti buchi neri di massa intermedia (IMBHs - Intermediate-Mass Black Holes), una sorta di anello di congiunzione tra la classe dei buchi neri stellari e quella dei supermassicci. Una famiglia di oggetti che si potrebbero pensare sia come naturale evoluzione dei buchi neri stellari a seguito dell'acquisizione del materiale circostante, sia come possibili semi dai quali sarebbero emersi i buchi neri supermassicci. Nonostante la caccia serrata, però, sono davvero pochi i buchi neri intermedi dei quali si abbia qualche traccia concreta. 

L'ultima scoperta riguarda la galassia NGC 2276, un sistema stellare situato a 100 milioni di anni luce dalla Terra. Il suo aspetto un po' disturbato - impressione confermata da osservazioni a differenti lunghezze d'onda - va probabilmente imputato alle perturbazioni gravitazionali di NGC 2300, una grande galassia ellittica vicina. Più che al suo aspetto irregolare, il team coordinato da Anna Wolter (Osservatorio di Brera - INAF) è da qualche tempo impegnato a indagare su alcune intense sorgenti di radiazione X appartenenti alla classe delle cosiddette ULX (Ultra-Luminous X-ray source) presenti in quella galassia. Dato che precedenti osservazioni dei satelliti ROSAT e XMM-Newton ne avevano rilevato alcune nelle zone periferiche di NGC 2276, i ricercatori hanno utilizzato i dati raccolti dall'osservatorio Chandra per acquisire maggiori dettagli. Nello studio, pubblicato su MNRAS, Wolter e collaboratori riportano l'identificazione di ben 16 sorgenti X - 8 delle quali catalogabili come ULX - e la sorprendente scoperta che una delle sorgenti note in precedenza è in realtà composta da più sorgenti distinte. Un numero piuttosto elevato che, aggiunto al notevole tasso di produzione stellare di NGC 2276 (annualmente la galassia sforna stelle per l'ammontare di 5-15 masse solari), confermano come quel sistema stellare sia piuttosto attivo. Secondo i ricercatori, entrambe le caratteristiche sarebbero dovute proprio all’interazione con il gas che circonda la galassia ellittica NGC 2300 (qui il paper completo).

Proprio una di queste ULX, identificata come NGC2276-3c, è stata oggetto di un approfondimento di indagine da parte di Mar Mezcua (Harvard-Smithsonian CfA) e collaboratori, che hanno pubblicato i loro risultati sul numero di aprile di MNRAS. Per stabilire la vera natura della sorgente X i ricercatori hanno effettuato osservazioni quasi simultanee sia con l'osservatorio Chandra che con la rete di radiotelescopi dell'EVN (European VLBI Network). Combinando i dati raccolti con quanto previsto dai modelli teorici per l’emissione nel dominio radio e X da parte dei buchi neri, gli astronomi hanno potuto stabilire che NGC2276-3c ha tutte le carte in regola per essere uno dei tanto ricercati buchi neri di massa intermedia. La stima della massa di questo oggetto, infatti, ha portato a un valore di circa 50 mila masse solari (a questo link il paper completo).

Come si osserva per molti buchi neri, anche in questo caso è emersa una stretta interazione con l'ambiente circostante. I dati radio hanno infatti mostrato la presenza di un getto che penetra per 2000 anni luce nel gas interstellare di NGC 2276 creando una specie di zona morta. La regione attraversata da questo potente getto non mostra cioè nessuna traccia di giovani stelle entro un raggio di circa 1000 anni luce dal buco nero. Insomma, sembra proprio che il getto espulso da NGC2276-3c abbia fatto piazza pulita del gas presente in quella regione, impedendo di fatto la formazione di nuove stelle.

Se, da un lato, questo ci conferma lo stretto legame tra buchi neri e ambiente galattico, la posizione in cui risiede NGC2276-3c apre la porta a una domanda cruciale. Dato che il buco nero non si trova nel nucleo di quella galassia ma lungo un suo braccio a spirale, è infatti inevitabile chiedersi da dove provenga. Se, cioè, si sia formato direttamente all’interno della galassia - a quel punto, però, si dovrebbe individuare quale meccanismo accretivo possa avere una tale efficienza - oppure provenga dall'esterno, per esempio dalla regione centrale di una galassia nana che in passato è stata coinvolta in una collisione con NGC 2276.

Non meno cruciali le domande che sono state messe sul tappeto da un'altra scoperta riguardante i buchi neri. Sul numero di Nature di fine febbraio, infatti, Xue-Bing Wu (Peking University - Beijing) e collaboratori hanno riportato la scoperta di un quasar eccezionalmente luminoso posto a 12,8 miliardi di anni luce da noi, il più brillante quasar mai scoperto in un'epoca così remota. L'individuazione è stata possibile grazie a un innovativo metodo di ricerca sviluppato dal team proprio per scovare i quasar immersi nelle profondità più remote del cosmo partendo dai dati raccolti nella banda della luce visibile e del vicino infrarosso. La conferma della natura di SDSS J0100+2802 - questa la sigla dell'oggetto, scambiato finora per una stella neppure troppo distante - è venuta da accurate osservazioni compiute con il Multiple Mirror Telescope (MMT), il Large Binocular Telescope (LBT), il Magellan Telescope e il Gemini North Telescope.

Le osservazioni hanno permesso anche di valutare l'incredibile luminosità di questa sorgente celeste, stimata in 420 mila miliardi di volte quella del Sole. Secondo gli astronomi, il motore che alimenta questa smisurata produzione energetica sarebbe un buco nero supermassiccio di ben 12 miliardi di masse solari. A lasciare perplessi gli astrofisici non è tanto l'incredibile massa di questo buco nero, quanto piuttosto il fatto che stiamo osservando un oggetto celeste appena 900 milioni di anni dopo il Big Bang. Significative le parole di Adriano Fontana, coordinatore della ricerca italiana con LBT: «La sfida che abbiamo di fronte è spiegare come sia possibile trovare un oggetto tanto massiccio in un'epoca così remota. Visto che i buchi neri accrescono la propria massa attirando la materia attorno a loro, SDSS J0100+2802 deve avere divorato l’equivalente della Grande Nube di Magellano, una galassia nana compagna della Via Lattea, in appena qualche centinaio di milioni di anni!»


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