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L'antropologo che aveva scambiato Darwin per un cappello

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In tempi non sospetti è stato Edgar Morin a puntare l’indice contro la deleteria sottovalutazione dell’elemento naturale operata da molta, moltissima antropologia della seconda metà del Novecento. Nel suo celebre libro dedicato al Paradigma perduto (1976) egli definì «antropologia insulare» tutti quei modi di teorizzare intorno all’uomo che in qualche modo ne disconoscessero l’ascendenza naturale. L’uomo, secondo questi antropologi, è come un’isola in mezzo alla natura, anzi, a loro dire già il solo parlare di “natura umana” è un tremendo azzardo perché mentre le culture sono tante la natura è solo una e quindi l’uomo non può che essere un soggetto senza natura. «Così – scriveva Morin - svuotata da ogni parte di virtù, di ricchezza, di dinamismo, la natura umana appariva come un residuo amorfo, inerte, monotono: è ciò di cui l’uomo si è privato e non ciò che gli dà fondamento». Eppure, già da parecchi decenni, Darwin aveva ampiamente smentito questa visione dell’uomo, insinuando come, nonostante tutti i «suoi enormi poteri, egli ancora porta impressa nella sua struttura fisica l’impronta indelebile della sua infima origine». Possibile mai, c’è allora da chiedersi, che generazioni di antropologi abbiano ignorato la lezione dell’autore de L’Origine delle specie e de L’Origine dell’uomo? Ovviamente no. Possibile che Morin abbia preso un terribile granchio? Anche su questo è lecito dubitare. E allora come la mettiamo? Per sciogliere l’aporia bisogna uscire dagli steccati spesso autoreferenziali delle accademie e gettare uno sguardo sulla terribile storia del secolo breve, in particolare sulle pagine più buie che esso ha conosciuto: il razzismo dei totalitarismi nazifascisti, le guerre coloniali, i genocidi perpetrati in nome della purificazione biologica di popoli sedicenti “superiori”, le selezioni tra uomini “adatti” e “non adatti” progettate sulla base della altrettanto sedicente “scienza” eugenetica. Ecco il punto. Nazismo, fascismo, razzismo, guerre, lotta, selezioni eugenetiche, tutti questi mali sembrano condurre a un minimo comune denominatore: Darwin e il darwinismo. Gran parte dell’antropologia del XX secolo ha pertanto anacronisticamente preferito tornare a vedere l’uomo come un’isola piuttosto che scottarsi le mani con certe questioni. E il bello (si fa per dire) è che ancora oggi, dopo che una vasta produzione letteraria (almeno in area anglosassone) ha ormai chiarito la complessità e spesso la vaghezza del concetto di “darwinismo sociale”, dopo che il materialismo delle scienze naturali non è più un ostacolo ma è anzi diventato un vettore privilegiato per la comprensione di fatti squisitamente “culturali”, ancora oggi, si diceva, è quasi automatico provare un sentimento di rifiuto e di disgusto di fronte alla darwiniana congiunzione di uomo e natura. Come se le tragedie partorite dal XX secolo fossero in gran parte dovute alla maledetta biologizzazione dell’uomo e delle sue facoltà. Così sono in molti a stendere un velo su alcuni aspetti dell’evoluzionismo, a fare finta che Darwin non abbia mai parlato di certe cose (gli «iconografi»), o viceversa a ripetere la vulgata dei critici “a ogni costo”, attribuendo al darwinismo e quindi a Darwin in persona ogni male (i «darwinofobi»). Per questo, e non solo, l’ultimo lavoro di Antonello La Vergata guadagna un posto del tutto privilegiato nella folta schiera di volumi usciti in occasione dell’anno darwiniano. A differenza delle molte pur meritorie opere dedicate alla vita di Darwin e ai vari aspetti della sua rivoluzionaria teoria, in Colpa di Darwin? Razzismo, eugenetica, guerra e altri mali, La Vergata compie un’operazione originale e assai salutare, ricostruisce con la precisione e la chiarezza che gli si addicono il complesso intreccio di discussioni e problemi che fiorì all’indomani della pubblicazione dell’opera darwiniana. Da Spencer a Wallace, da Galton a Greg, da Haeckel a Weissman, da Danilevskij a Kropotkin, da Sergi a Pende fino a Mussolini, così come da Shallmayer a Ploetz fino a Hitler, solo per citarne una minima parte, La Vergata ci conduce per mano nei meandri del caleidoscopico repertorio di metafore e analogie che spesso e volentieri vennero a incrociarsi con il lessico darwiniano ma che con la teoria elaborata da Darwin non ebbero nulla da spartire. Scopriamo così che c’è un socialdarwinismo pacifista e uno guerrafondaio, un’eugenetica nazista e una socialista, una selezione naturale “secolarizzatrice” e una di matrice “provvidenziale”, un’apologia darwiniana e un ripudio altrettanto darwiniano del liberismo, insomma tutto e il contrario di tutto sempre nello stesso nome.

Utilissimo sia per lo studioso sia per il semplice curioso, questo libro è un ottimo esempio di come «chi fa la storia delle idee non deve solo cercare di appurare “che cosa ha veramente detto Darwin”, ma anche che cosa hanno veramente detto tutti coloro che a lui si sono riferiti. Della storia del darwinismo fa parte tutto quello che è stato detto di Darwin o fatto con le sue idee, non solo quello che riteniamo vitale (ed è molto)» (p. 27).

Debitamente lontano da ogni velleità agiografica e, va da sé, darwinofoba, merita di essere letto da ogni persona che desideri entrare nello spirito del proprio tempo Perché non possiamo non dirci darwinisti di Edoardo Boncinelli. Contrariamente da quel che il titolo sembra suggerire, il lavoro di Boncinelli non è affatto un mero pamphlet “laicista” (così come pure qualche recensore in mala fede ha voluto far intendere), ma è un’autentica introduzione alla biologia darwiniana. Di più, Boncinelli non si limita a tracciare le traiettorie fondamentali della teoria che ha rivoluzionato la biologia moderna, ma ha ricostruito l’evoluzione dell’evoluzionismo, da Darwin ai primi darwinisti, dalla cosiddetta sintesi moderna al neodarwinismo dei nostri giorni. Quel che contraddistingue il libro del grande scienziato e divulgatore è, infatti, proprio la maestria con cui vengono coniugate le geniali intuizioni di Darwin (variazione e selezione spiegano la molteplicità e l’ubiquità del vivente) con le successive e sempre più sconvolgenti scoperte della genetica popolazionale, della genetica molecolare, della biochimica e dell’ecologia. Nate dal seme darwiniano, tutte queste discipline non hanno mai smesso di chiamare in dubbio i vari aspetti dell’evoluzionismo e a volte si è avuto l’impressione che le scienze darwiniane arrivassero perfino a smentire il darwinismo medesimo. È stato il caso del “neutralismo” teorizzato dal genetista giapponese Motoo Kimura, che sulla base della scoperta dell’enorme numero di variazioni prodotte all’interno di una popolazione (nonché tra un organismo e l’altro) sembrava ridimensionare il ruolo della selezione naturale come unico agente di cambiamento evolutivo; ma è stato anche il caso del saltazionismo teorizzato dalla formidabile “coppia” di scienziati-divulgatori Stephen Jay Gould e Niles Eldrege, che sulla base di numerose e sempre più convincenti prove paleontologiche hanno dimostrato che la vita si è evoluta per salti, cioè grazie a una serie di “esplosioni” di variazioni di forme viventi, e non, come riteneva l’ortodossia darwiniana, per gradi, ovvero per lente e successive modifiche graduali. Il fatto è che grazie a queste critiche il darwinismo non è mai stato smentito ma si è evoluto. La scienza non ha idoli e «lo scienziato è l’unica persona che la mattina va a lavorare per dimostrare di avere torto». «La teoria dell’evoluzione, come certe teorie cosmologiche e come in fondo quasi tutte le teorie scientifiche, non sarà mai verificabile nel suo complesso o in tutti i suoi aspetti, ma può benissimo vivere e prosperare se si articola su un certo numero di fatti verificati che siano logicamente connessi con quelli non verificabili o non verificabili al momento». Altro che laicismo!


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